Corriere della Sera, 9 gennaio 2016
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Perché facciamo pochi figli
Ci siamo assuefatti all’idea. Ci diciamo che è colpa della crisi, della carriera, della mancanza di servizi, della conciliazione impossibile tra casa e lavoro. Tutto giusto. Ma è davvero tutto? Il sociologo danese Gøsta Esping-Andersen tempo fa disse che in alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, la rivoluzione di genere partita dalla maggiore istruzione femminile infine si è bloccata: la società non si è adattata alle madri lavoratrici né dentro le famiglie, né dentro il mercato del lavoro, e uno dei risultati è, appunto, una bassissima fecondità permanente.
Partiamo da questo. L’Istat ha calcolato che in Italia il Tasso di fecondità totale, cioè il numero medio di figli per donna, è 1,37, viziato dalle nascite nelle coppie con almeno uno dei partner straniero. Nel 2014 sono nati in totale 502.596 bambini; quelli da genitori entrambi italiani erano 398.540. Il tasso di fecondità scende, dunque, a 1,29 figli. Non è il più basso della nostra storia. Nel 1995 abbiamo toccato quota 1,19. E se torniamo indietro di un altro decennio, nel 1986, il tasso era di 1,37, come adesso. Questo ci dice due cose: le trentenni e le quarantenni adesso sono a loro volta figlie della denatalità nelle generazioni precedenti; oggi, in proporzione, ci sono meno donne in età riproduttiva rispetto a venti, trenta, 40 anni fa.
La società non si è adattata
La riduzione delle nascite è un fenomeno che riguarda tutti i Paesi industrializzati. L’Italia, però, riesce a fare peggio degli altri. Nel numero 33 del 2015 del Working Paper Series Families and Societies, Maria-Letizia Tanturri dell’Università di Padova insieme con altre quattro ricercatrici internazionali faceva notare che in Italia una donna su cinque, tra le 40-44enni, non ha figli: ci batte la Svizzera. È lei, ma non soltanto lei, a dire che «la nostra società è organizzata con delle rigidità che non rispondono più alla situazione reale». Facciamo degli esempi. «Gli asili sono pochi e costosi e hanno orari talvolta inconciliabili con quelli delle donne normali. Non penso alle manager, ma alle commesse, alle mamme che fanno i turni e non hanno nonni sui quali contare, perché distanti, perché lavorano ancora o perché troppo anziani e malati. Come possono organizzarsi?». Dopo un figlio, non se ne fa un altro.
Una scuola di un’altra epoca
Superato lo scoglio dell’asilo, si entra nel girone infernale della scuola dell’obbligo. Tanturri: «Una volta i bambini giocavano in cortile e qualcuno, genericamente, li guardava. Oggi svolgono molte attività extrascolastiche: chi li accompagna?». La collega Letizia Mencarini, dell’Università Bocconi, è molto più esplicita: «In questo ultimo ventennio, nel quale si poteva fare molto per investire sulla genitorialità, i servizi sono stati riformulati. Le scuole chiudono il 9 giugno e riaprono a metà settembre: come può una famiglia normale stare tre mesi in vacanza? Pensiamo poi ai colloqui e alle altre iniziative che presuppongono la presenza di un genitore: se lavorano entrambi, come si fa?». È facile parlare di permessi parentali, è difficile farli prendere ai padri. Insiste Tanturri: «Il salto da fare è cominciare a parlare di entrambi i genitori, che davanti al datore di lavoro hanno lo stesso diritto e dovere di occuparsi dei figli».
Precarietà sentimentale
Diamo per scontato che sia il mercato del lavoro troppo fluido a condizionare la scelta di non avere figli. Non attribuiamo un peso adeguato alla precarietà della coppia. «La sessualità non ha più da un pezzo, e per fortuna, un fine riproduttivo», interviene Chiara Simonelli, docente di Psicologia e psicopatologia dello sviluppo sessuale alla Sapienza di Roma. «E anche se l’orologio biologico a un certo punto si fa sentire, le donne sono molto esigenti, soprattutto per avviare un progetto importante e definitivo come quello di un figlio». È cambiato il modo di stare insieme, aggiunge la sociologa della famiglia Carla Facchini, della Bicocca di Milano: «Aumentano le “non coppie”, formate da chi ancora vive in famiglia a causa della precarietà professionale, o che, quando esce, lo fanno per inseguire un progetto di vita individuale, mentre un tempo l’”adultità” era vissuta come una conquista di coppia».
Nuova identità femminile
Non conta poco, nel calo delle nascite, la ridefinizione dell’identità femminile. Intanto, comincia a dichiararsi chi non vuole avere figli: Euribor ha calcolato che si tratta del 2% delle donne e del 4% degli uomini tra i 18 e i 40 anni. La psicologa Elena Rosci, autrice del saggio La maternità può attendere (Mondadori), racconta: «Raramente, oggi, una donna tra i venti e i 35 anni dice di avere avuto un figlio perché le è capitato. La maternità è oggetto di una profonda riflessione e il desiderio è ondivago, talvolta non così imperioso da essere portato a termine, ma oggetto di valutazioni di opportunità temporali, sentimentali, lavorative, abitative, psicologiche». Il modello della donna Anni 50, dedita a marito e famiglia, non fa più parte dell’educazione delle bambine. «Realizzazione e cura di sé a un certo punto si divaricano, le istanze di realizzazione professionale sono molto forti, si posticipa la maternità finché non ci si ritrova a constatare che le cose sono andate in un altro modo». La ginecologa milanese Stefania Piloni nei suoi colloqui osserva come si stia perdendo la scala biologica degli eventi: «Anche quando la coppia c’è, la stabilità economica pure, si tende a posticipare. Quando ho davanti una donna di 36 anni, fidanzata da sei, senza problemi finanziari e le chiedo se non sia il momento di pensare a un figlio, mi sento rispondere: “Ma io sono ancora giovane!”». Il tempo, però, non smette di passare, i tassi di infertilità toccano il 25% delle coppie e le liste di attesa per la procreazione assistita passano dai sei mesi all’anno.
Idealizzazione della maternità
Eppure non è un caso che in un Paese familista come il nostro nascano sempre meno bambini. Mettere al mondo un figlio è una cosa estremamente seria: aspettiamo di avere tutte le precondizioni secondo noi indispensabili per garantire al nascituro un futuro sereno e nell’attesa perdiamo il treno. «C’è un iperinvestimento sui figli, ne segue una serie di paure: di non essere buoni genitori, di non poter provvedere all’università, di non riuscire ad assicurare il futuro che vorremmo», conclude Carla Facchini. Ma fa notare una cosa: «Guardiamo gli immigrati. È difficile sostenere che vivano in condizioni migliori delle nostre; che abbiano case più confortevoli; che possano contare su una rete di parenti. Il punto è che per loro diventare genitori è un fatto culturale: i figli rappresentano il riscatto. In Italia oggi le persone si riscattano solo da se stesse, attraverso le esperienze della propria vita».