il Giornale, 6 gennaio 2016
La fortuna di diventare presidente della Cassazione
Quale organismo sociale – dalla bocciofila di quartiere alla Nasa – potrebbe sopravvivere se il suo presidente venisse scelto solo tra vecchietti sull’orlo della pensione, destinati a restare in carica un solo anno e poi a togliere il disturbo? Risposta: la Corte di Cassazione, supremo organo giudicante della magistratura nostrana. Per la quale, mentre il ministro Andrea Orlando proclama al mondo il suo intento di svecchiare la giustizia italiana, continuano a venire nominati presidenti arrivati a un passo dalla fine della loro carriera, destinati a lasciare il palazzaccio di piazza Cavour prima ancora di averlo girato per intero. Accade una manciata di giorni prima dello scorso Natale, nel solco di una prassi immutabile. Il Consiglio superiore della magistratura viene chiamato a votare sulla nomina del Primo Presidente della Cassazione. La sfilza di maiuscole è legittimata dal fatto che non si tratta solo del magistrato più importante d’Italia ma anche del funzionario pubblico numero uno, quello il cui stipendio (pari a 311.658,53 euro) non può essere superato per legge da nessun altro emolumento statale. Sul tavolo del Csm, nell’imminenza del pensionamento del presidente Santacroce, piovono una sfilza di autocandidature. Ma la rosa dei papabili si riduce rapidamente a quattro nomi: Giovanni Canzio, Renato Rordorf, Giuseppe Maria Berruti e Franco Ippolito. Tutti magistrati di grande esperienza e spessore, accomunati da un dato anagrafico: sono quattro «toghe grigie», hanno tutti compiuto i settant’anni ma non i settantadue, e quindi sono inesorabilmente destinati a andare in pensione alla mezzanotte del prossimo 31 dicembre. Un anno scarso: sufficiente per chiudere nel modo migliore possibile la carriera di un alto magistrato; poco per mettere mano ad un organismo complicato e alle prese con problemi enormi, compresi alcuni sbandamenti vistosi nella giurisprudenza (vedi le sentenze sui gialli di Perugia e di Garlasco). Alla fine, il Csm sceglie Canzio, finora presidente della Corte d’appello di Milano, giurista profondo e grande organizzatore. Ma per quanto bravo, anche Canzio non girerà la boa del 2016. E lo stesso sarebbe accaduto se fosse stato scelto Renato Rordorf, che il Csm (che pure lo aveva dichiarato inadeguato alla Corte d’appello di Milano pochi anni fa) consola con la carica di «vice», che gli consentirà di presiedere le Sezioni Unite civili; mentre Berruti viene sistemato da Renzi alla Consob, dove almeno potrà restare in carica sette anni.Aldilà dello spessore professionale dei contendenti, il caso solleva inevitabili interrogativi sulla sensatezza di nomine così effimere. Lo stesso Csm ha dimostrato di avere ben chiara la necessità di garantire la continuità nella guida degli uffici giudiziari quando ha stabilito che per aspirare ad una Procura della Repubblica o ad una presidenza di tribunale un giudice debba avere davanti a sé almeno quattro anni di servizio. Ma curiosamente questa norma non si estende alle cosiddette «funzioni apicali», cioè le procure generali, le presidenze delle Corti d’appello e soprattutto la Cassazione: una eccezione che, soprattutto negli ultimi due casi, non fa il conto con la complessità di uffici che sono anche aziende complesse, soprattutto in una fase cruciale di evoluzione tecnologica come l’attuale. Un vantaggio però c’è: si lascia spazio più ampio alla discrezionalità e alle manovre.