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 2016  gennaio 06 Mercoledì calendario

Il legame malato fra gli Usa e l’Arabia Saudita

Il matrimonio finora indissolubile tra Occidente, Islam e petrodollari comincia settant’anni fa. E continua ancora nonostante i petrodollari abbiano finanziato il terrorismo: da questo dilemma non si esce e la crisi tra Iran e Arabia Saudita, tra il fronte sciita e quello sunnita è ancora lì a dimostrarlo. L’unione tra Washington e Riad è stato uno dei legami più indissolubili delle relazioni internazionali dopo la seconda guerra mondiale e forse potrà superare anche l’accordo sul nucleare con l’Iran, la possibile cancellazione delle sanzioni a Teheran, la nuova crisi del Golfo e i 250mila morti della Siria. C’è infatti sullo sfondo un dettaglio interessante per il futuro della regione Levante-Mesopotamia: nella guerra del Siraq, le maggiori potenze coinvolte – Usa, Russia, Iran e Arabia – sono grandi produttori di petrolio e di gas, e ovviamente concorrenti.
Il calo dei prezzi petroliferi voluto proprio dall’Arabia Saudita per occupare quote di mercato e asfissiare l’Iran ha accompagnato l’ascesa dell’Isis il cui “compito” strategico era sconvolgere la regione e probabilmente far saltare tutti i piani delle pipeline che passavano dal Medio Oriente al Mediterraneo, dalla Russia al Mar Nero. Russia e Iran stavano con Bashar Assad, che con il beneplacito di Mosca aveva concesso il passaggio agli iraniani via Iraq; Arabia Saudita e Stati Uniti contro, perché su pressione di Teheran e di Putin il raìs siriano l’aveva negato al Qatar e ai sauditi. L’obiettivo, condiviso dai protagonisti in competizione, è stato centrato perché una guerra devastante ha sopito tutte le mire economiche sul Levante affondando anche il South Stream tra Russia e Turchia avversato da Washington.
Certo questo non è stato il solo motivo di una guerra, che ne ha tanti, ma ora forse potrebbe cominciare il secondo atto se i sauditi non fossero in fibrillazione: crisi economica, guerre che non vincono – Siria e Yemen – problemi dinastici e forse di legittimità, dovuti anche al leggero anacronismo di una monarchia assoluta. Anche questa volta però gli americani dovranno salvare la dinastia dei Saud che invece della guerra al Califfato vorrebbero farla agli ayatollah di Teheran, non solo per ragioni di concorrenza petrolifera ma soprattutto per motivi di competizione ideologica-religiosa, che in Medio Oriente significa pura sopravvivenza.
L’Arabia Saudita è di gran lunga il maggior partner commerciale americano in Medio Oriente, il suo più importante acquirente di armi – oltre 90 miliardi di dollari negli ultimi cinque anni secondo il Congresso – e anche uno dei maggiori investitori in dollari e buoni del Tesoro Usa. In Arabia Saudita tutto nasce all’insegna del Corano e soprattutto del dollaro. A partire dall’estrazione del petrolio avviata dalla Standard Oil nel 1938 e dall’Aramco, la società di Stato, fondata da tre compagnie Usa. Il bollino di garanzia sul Regno verrà incollato qualche anno dopo da Roosevelt. Pur di compiacere i dettami islamici del suo ospite saudita, il monarca Abdulaziz Ibn Saud, Franklin Delano Roosevelt 70 anni fa si nascose a fumare l’amato Avana nell’ascensore dell’incrociatore Quincey ormeggiato nel canale di Suez. Si era informato bene: qualche tempo prima il Re non aveva sopportato né il sigaro di Churchill né le sue bevute di wiskey. Era il 14 febbraio 1945, dieci giorni dopo Yalta, Stati Uniti e Arabia Saudita stavano per stringere un patto fondamentale negli equilibri del Medio Oriente: petrolio e basi aeree a Dahran in cambio della protezione americana del Regno.
La politica mediorientale americana comincia così, a bordo dell’incrociatore Quincy. Ma oltre al petrolio Roosevelt chiese un’altra cosa al sovrano, rappresentante della versione più puritana dell’Islam e custode della Mecca: il suo appoggio all’emigrazione ebraica in Palestina. Ibn Saud declinò, affermando che avrebbe urtato gli interessi degli arabi. Il 5 aprile Roosevelt in una lettera si impegnò a non sostenere il ritorno degli ebrei. Ma il successore Harry Truman rinnegò l’impegno e votò all’Onu nel ’47 la spartizione della Palestina: scelse Israele al posto del petrolio, senza naturalmente rinunciarvi. Essere superpotenza significa anche sfruttare posizioni inconciliabili a proprio vantaggio.
Ed è quello che probabilmente farà Obama anche questa volta. Del resto nel ’47 furono gli americani a fondare la Banca centrale e la Saudi Arabia Monetary Agency convincendo Inb Saud a investire tutto in dollari – ancora oggi l’85% delle riserve di Riad, 640 miliardi, sono in dollari e titoli Usa – e a oltrepassare il divieto della sharia, la legge islamica, che vieta i prestiti con interessi. Facevano tutto gli americani, che con i soldi sauditi hanno finanziato il loro debito offrendo a Riad i bond ancora prima che andassero alle aste. Con una clausola: mai nessuno avrebbe rivelato i nomi degli investitori sauditi.
Eppure gli Stati Uniti sapevano già tutto. Nel 2009 un cablo del segretario di Stato Hillary Clinton diceva che «i sauditi sono i maggiori finanziatori dei gruppi terroristici sunniti nel mondo». Se ne era accorto persino un rapporto dell’Unione europea. Del resto gli americani avevano poco da lamentarsi: i petrodollari sauditi negli anni 80 avevano finanziato la sconfitta dell’Armata Rossa in Afghanistan da parte dei mujaheddin e poi anche Bin Laden e i jihadisti in Siria. Non sempre, è ovvio, gli assegni vanno nelle mani giuste ma “business is business”, a Washington come a Riad.