il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2016
Una gran bella mostra su Pablo Echaurren
Alcune volte più conosci un artista e meno riesci a sintetizzare i risultati del suo lungo e prolifico percorso. Ancor più in questo caso, in cui Pablo Echaurren (Roma, 1951) assume le sembianze di un lontano – ma affine per gusti, manie, collezionismi e atteggiamenti (in costante opposizione alla società dell’arte) – fratello maggiore, di cui conservo da decenni come preziose reliquie la copertina del celebre “Porci con le ali” del 1976, la maglietta disegnata per Arezzo Wave nel 1991 e il caustico libro Delitto d’autore (2003) nel quale si svelano (sotto pseudonimo) peccatucci – non proprio esempi di meritocrazia – del mondo artistico capitolino.
Era già da allora, per me, tra i pochi artisti a tutto campo, grafico eccellente – isolato, poliedrico e sovversivo – a spingere verso una costante sovrapposizione di intenti, intriso per vocazione di un eclettismo senza timore, tra colore e parola, tra particolare e globale, tra pubblico e politico, tra scrittura e denuncia. Sfuggito da subito ad ogni gerarchia di genere, affronta il basso e l’alto, la parola e lo studio, il disegno e l’urlo politico. La fatidica “contaminazione”, agli occhi dei più sinonimo di dispersione, di reticenza verso l’arte “alta”, tradiva invece la passione per raggiungere un tutto, attraverso la pittura e la ceramica, quasi pronta ma ancora in là da venire.
“Contropittura”, grande mostra a lui dedicata allestita presso la Gnam di Roma (fino al 3 aprile 2016), a cura di Angelandreina Rorro, si concentra proprio su questo aspetto di laboriosa – ricamata e da manoscritto – formazione (accompagnata per empatia dall’artista Gianfranco Baruchello e da Arturo Schwarz) e permette di comprenderne a pieno i confini creativi, l’illustrazione, la politica, le passioni, gli sviluppi letterari.
La sua complessa biografia ultraquarantennale comprende una solida attività da collezionista di reperti futuristi e di bassi elettrici, di illustratore e fumettista, di caustico narratore di vicende legate al mondo dell’arte, di raffinato saggista e infine di pittore prolifico, decisamente esplosivo.
Il percorso espositivo, che presenta oltre 200 opere dell’artista – tele, disegni, collage – dagli anni settanta ad oggi ed un’ampia sezione di documentazione, comincia con i lavori d’esordio, i celebri ‘quadratini’, acquerelli di piccole dimensioni che riflettono i miti generazionali (la politica, le donne, la musica) e le inclinazioni personali (per le scienze naturali e il collezionismo). Tavole come raffinati francobolli di pezzi di mondo che si accostano e si amalgamano in un ballo poetico che non smette di stupire per energia (dalle costolette di maiale ai vulcani fino ai temi erotico-sentimentale con titoli ingegnosi: “L’amavo follemente ma lei continuava a fare finta di niente”).
E ancora, il segno della pace, la falce e martello, i simboli del I Ching che formano lettere e segni. Il cuore della mostra è dedicata ai disegni e collage (esposti per la prima volta) legati all’esperienza dei cosiddetti “Indiani metropolitani” che, nel 1977, si appropriarono dei linguaggi estetici dell’avanguardia artistica per denunciare il mondo illusionistico dei media.
In seguito Pablo incontra sulla sua strada i Graffitisti, e in parte li affianca (anni Ottanta e Novanta), dando vita a ballate multiformi come scosse elettriche di teschietti seriali e colorati: una sorta di sfida allegra alla morte e ad essere, al tempo stesso, ancora una volta impegnato in ambiti sociali e, chissà se casualmente, internazionali.