il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2016
«Lei è il padre dello scrittore?». Confessioni di Massimo Ammaniti, psicoanalista
C’è qualcosa di molto gratificante nell’intervistare uno psicoanalista. Anche se lui sta dalla consueta parte della scrivania e tu da quella del paziente, vicino al lettino, sei tu che fai le domande ed è lui che stavolta deve parlare di sé. L’interno borghese è uno studio dei Parioli, l’occasione un libro appena uscito per Laterza, La famiglia adolescente. Vorresti partire dal cuore, la domanda di Ivan Karamazov: “Chi non desidera la morte di suo padre?”, per sapere da Massimo Ammaniti cosa pensa risponderebbe suo figlio Niccolò. Ma bisogna cominciare da molto prima.
L’anno è il 1941, la città Roma. C’è un papà, che fa il medico: pediatra. E una mamma che ha un’impresa di costruzioni. La guerra è già scoppiata. “Ho una mia teoria sull’essere nato nel 1941. Mio padre era andato in guerra. Credo abbia pensato qualcosa come ‘parto per la guerra, non so che succede, se sopravvivo o mi ammazzano.
Però ti lascio un figlio’. Stava in Libia, doveva essere in una condizione terribile. Sull’intestazione delle lettere, le conservo ancora, c’è scritto “Luogo delle operazioni” perché non si poteva rivelare l’ubicazione esatta nemmeno ai parenti. Vivevano dentro una tenda nella sabbia, c’era un vento fortissimo e tutto quello che mangiavano aveva dentro la sabbia. È tornato alla fine del ‘42”. Tutto bene quel che finisce bene? Non proprio: “Quando avevo dieci anni i miei genitori si separarono, io andai a vivere con mio padre: la decisione fu presa da mia madre, ero molto arrabbiato con lei. Mi fecero fare il liceo in una scuola religiosa, dove non c’erano classi miste”.
Perché ha deciso di fare medicina?
Fu mio padre a decidere, allora funzionava così. Accettai molto malvolentieri, poi mi sono appassionato. Ho cominciato la specializzazione nel 1965: neuropsichiatria infantile prima, psichiatria poi. Allora la psichiatria aveva una specie di ubriacatura farmacologica. Il mio maestro è stato il professor Bollea. Ho lavorato con lui fino agli anni Settanta. Poi avemmo divergenze.
Gli anni Settanta sono molto importanti per la psichiatria.
In quel periodo ho avuto due esperienze fondamentali. La prima è stata l’integrazione scolastica dei bambini disabili, in un istituto di Trastevere. Fino a quel momento c’erano le classi differenziali. I bambini con problemi, se avevano famiglie poco attente, finivano all’ospedale psichiatrico. Feci chiudere a Roma il famigerato Ottavo padiglione, un posto terribile. Appena laureato, andai in questo reparto di bambini e rimasi sconvolto. I pazienti erano tenuti in condizioni inimmaginabili: nudi, legati al letto, per non farli strillare mettevano loro una spugna in bocca. Mi dimisi immediatamente. Poi ci tornai nel ‘72 e facemmo cose molto belle: rivestimmo i bambini, lavorando con le infermiere e tenendo a bada le suore che purtroppo erano parte attiva del sistema concentrazionario. Cercammo di riprendere i rapporti con le famiglie, riuscimmo a far venire insegnanti volontari, d’estate organizzammo soggiorni estivi cui parteciparono anche i bambini del quartiere. A un certo punto il presidente della Provincia però mi trasferì, perché questo metodo di cura e accoglienza metteva in discussione tutta l’organizzazione dell’ospedale psichiatrico. Fui mandato a un centro di salute mentale, però il reparto dei bambini fu chiuso, anche grazie al clamore sulla stampa. Eravamo riusciti a dimostrare che i bambini non dovevano andare in ospedale. Scrissi una lettera pubblicata da Paese Sera, nei panni un bambino dell’ottavo padiglione. ‘Questa è la lettera che le potrei scrivere se non fossi stato legato, imbavagliato e costretto a stare nudo’.
Poi?
A quel punto avevo chiuso i conti. Ho iniziato a insegnare all’Università e sono diventato primario in un servizio psichiatrico, cercando di introdurre nelle procedure un approccio psicoterapeutico. Nell’86 ho cominciato a capire che la politica ingeriva troppo nella gestione delle Usl, sono passato all’Università. E poi avevo la professione privata.
Chi sono i suoi pazienti?
Soprattutto adolescenti, ma anche adulti.
È di formazione psicodinamica?
Kleiniana. Ma ho sempre cercato di non essere sordo alle novità portate, per esempio, dalle neuroscienze. Soprattutto ho sempre cercato di tenere presente la dimensione relazionale con il paziente. Adesso sono professore emerito all’Università, collaboro con la Harvard University.
L’idea che si ha dello psicoanalista freudiano è di uno che dice una parola a seduta che poi il paziente deve interpretare come un oracolo.
Corrisponde a una fase della psicoanalisi, in cui il terapeuta doveva essere uno schermo su cui il paziente trasferiva la propria immagine. E dunque non doveva avere una connotazione decisa. Le cose sono molto cambiate. Se uno con un adolescente facesse la mummia sarebbe un disastro! La psicoanalisi a indirizzo intersoggettivo prevede anche che il terapeuta si sveli: è un gioco a due. Daniel Stern, che per me è stato anche un grande amico, parla dell’importanza dei momenti d’incontro con il paziente.
Il suo libro analizza la famiglia adolescente: da un sistema in cui tra padri e figli c’era un rapporto autoritario siamo arrivati ai genitori amici.
In questo processo il ‘68 ha inciso moltissimo. Prima esisteva un paese contadino, con l’autorità del padre e i figli che restavano ancorati al modello genitoriale. La cultura giovanile ha messo in discussione le relazioni e il modo di socializzare. Prima tutto era filtrato dalla famiglia. Pensi ai film: Gioventù bruciata, West side story… Il gruppo diventa il riferimento, i codici non sono più solo quelli della famiglia.
Quand’è che i genitori sono diventati gli amici?
Quando i ragazzi del ‘68 sono diventati genitori, mettendo in discussione il modello educativo che avevano ricevuto. Ci sono stati in contemporanea mutamenti sociali importanti: il divorzio, l’aborto. Il mondo è diventato via via più complesso, togliendo certezze agli adulti. Quando i valori tradizionali sono stati messi in discussione, i genitori hanno cominciato a diventare amici dei figli: all’inizio degli anni Sessanta Alexander Mitscherlich ha scritto quel libro, Verso una società senza padre. In Italia di padri ne abbiamo conosciuti politicamente pochi: forse c’è un deficit della nostra società, che è più maternalistica. Filumena Marturano, rispondendo a Domenico Soriano che vuole sapere quale dei tre sia figlio suo, risponde: “E figlie so’ ffiglie… E so’ tutte eguale…”. Nei Paesi del Nord non vali solo per quello sei, ma anche per quello che fai, per quello che diventi. La famiglia al suo interno è cambiata: si è alzata l’età media dei genitori, si fanno meno figli, ci sono meno possibilità di lavoro. La famiglia è sempre più un surrogato del welfare, circostanza che crea dipendenza. Prima c’era una distanza generazionale: i genitori erano adulti a tutti gli effetti ed erano un modello di riferimento per i figli che s’individuavano attraverso la contrapposizione. Adesso tutti vivono in una specie di magma familiare: i figli vivono nel mondo dei genitori che non si levano mai i jeans. È vietato invecchiare, o meglio tutti vogliono invecchiare mantenendosi giovani.
L’adolescenza è un momento critico per tutti, genitori e figli.
Spesso i genitori si personificano nei figli, durante l’adolescenza, come se volessero viverla anche loro. Per cui ecco madri e padri che diventano confidenti e sono loro ad autorizzare i figli ad avere i primi rapporti sessuali. E poi intrattengono rapporti con i fidanzati o le fidanzate dei figli, intervenendo nel rapporto quando ci sono problemi: guai! Gli adolescenti sono quegli individui che si devono liberare dalla setta familiare. A me sembra molto discutibile che i genitori accettino che i figli si portino i fidanzati a dormire a casa. La sessualità deve essere scoperta e conquistata, non può essere esibita e condivisa. Quando i genitori lasciavano la casa libera, i ragazzi ne approfittavano: era una conquista. Certo la società era sessuofobica. Ho l’impressione che oggi non ci siano più differenze generazionali: tutti hanno lo zainetto, il motorino, la pagina Facebook. Gli adolescenti hanno bisogno del confronto perché l’adolescenza è una fase di crisi, in cui convivono contraddizioni e spaesamenti: una figura certa, solida, è necessaria. Donald Winnicott diceva che l’adolescenza è una malattia fisiologica dei figli, il problema è se i genitori sono abbastanza sani da affrontarla. Oggi i genitori esorcizzano l’adolescenza dei figli diventando loro più adolescenti. Bisogna accettare il conflitto: il figlio ti dice ‘non capisci’, ‘sei una carogna’, ‘appartieni al passato’. In alcuni momenti i figli ci odiano e vorrebbero addirittura eliminarci. Questo è difficilissimo da accettare, oggi più che mai perché i genitori cercano continue conferme dai figli. Erik Erikson diceva che se i genitori non accettano la propria morte, io figli non possono entrare nella vita. C’è poi un dato biologico: spesso l’adolescenza dei figli coincide con i cinquant’anni dei genitori, un momento in cui viene meno la spinta giovanile, le donne entrano in menopausa. Due crisi che s’intrecciano: l’incontro non è facile.
Lei che padre è stato per Niccolò e Luisa?
Severo. Ci tenevo che i figli studiassero: se non lo facevano mi arrabbiavo. Non ho mai permesso loro di portare a dormire a casa i fidanzati e le fidanzate. Niccolò si arrabbiava moltissimo. Mi diceva: ma come, con il lavoro che fai, hai fatto il Sessantotto…Però sono stato un genitore presente: ho dato e chiesto molto, anche in termini di risultati. Una cosa che facevo sempre e che mio figlio mi ha detto di aver usato a sua volta: gli dicevo ‘Ti devo parlare, ma più tardi’. È un modo di fare le regole del gioco.
Cos’ha significato per lei il successo di suo figlio?
Lui si doveva laureare in Biologia. Ci ha messo parecchio, finché a un certo punto gli ho detto: “O finisci l’università o ti caccio di casa”. Per un anno è stato chino sul computer. Credevo che stesse scrivendo la tesi, ma a un certo punto è saltato fuori che stava scrivendo il suo primo romanzo. L’ho presa malissimo, mi sono rifiutato di leggerlo per un paio di mesi. Poi l’ho letto e ho capito che mio figlio aveva talento. Mi sono anche detto: a volte i figli devono trovare la loro strada. Lo avevo spinto a fare Biologia molecolare, dopo mi ha ringraziato: era talmente difficile che gli ha fatto capire qual era la sua vera vocazione. Credo ci debba essere una dialettica. Lo scontro, la sfida reciproca, sono necessari. Non è facile come padre avere un figlio che ti sovrasta: non è semplice quando incontri qualcuno sentirsi dire ‘È il padre dello scrittore?’. Ogni tanto Niccolò mi chiede quante copie ha venduto un mio libro…‘Tremila?’. Abbiamo un rapporto molto amichevole. Al successo i genitori contribuiscono, poi ogni individuo si costruisce da sè. Penso che mio figlio sia stato coraggioso: invece di fare la tesi ha scritto il suo primo libro. Ma se io non l’avessi messo con le spalle al muro, chissà come sarebbe andata…
Ha fatto degli errori?
Eccome, tantissimi! Ma guardi che non è questo il punto. Bisogna capirli e riconoscerli.
Sapere tutte le cose che sa lei, aiuta o rende più difficile il mestiere di genitore?
Vivendo le relazioni ti dimentichi il lettino, Freud e tutte le cose che hai studiato. Anche gli psicanalisti hanno reazioni emotive.
Mai avuto momenti di crisi che hanno messo in discussione il suo lavoro?
I figli, non solo i tuoi ma anche quelli degli altri, mettono in discussione certezze e teorie. La società cammina più veloce. Per esempio un film come Thirteen coglie molto di più di qualunque teoria. I figli ci fanno capire anche i nostri limiti.
Ha mai chiesto scusa ai suoi figli?
Raramente è successo. Purtroppo non mi è facile ammettere gli errori.
Non c’è troppa enfasi attorno all’infanzia? Sembra che tutto ciò che i bambini di oggi fanno sia espressione di creatività e genio.
Assolutamente sì. I genitori faticano ad aiutare i figli a costruirsi una socialità responsabile, in cui ci sono regole da rispettare. In una società che non fa più figli il bambino non solo viene messo al centro, ma viene anche mitizzato come portatore della verità e della purezza. I bambini non sono malvagi ma cattivi. Anche da piccolissimi manifestano sentimenti come l’aggressività, l’invidia, la gelosia che è un classico tra fratelli. Tutti questi istinti fanno parte della natura umana e si attivano nelle relazioni tra le persone: non bisogna fare l’errore di metterli tra parentesi.
La regressione culturale tocca le relazioni familiari?
Ricordo medici del passato che sapevano a memoria la Divina Commedia, che avevano una formazione umanistica incredibile. C’erano molte meno occasioni – dalla televisione al computer – di svago e distrazione. Anche la scuola e l’Università incidono. Di fronte al ’68 qual è stata la reazione degli adulti? Cercare di compiacere e manipolare i movimenti studenteschi. Il livello della formazione accademica si abbassato indiscutibilmente. Qui di nuovo ci troviamo di fronte a una carenza del codice paterno, autorevolezza e autorità sono connesse. Bisogna saper dire di no e saper anche fare delle proposte. È andata a finire che ogni ministro ha provato a fare la sua piccola riforma, quasi sempre peggiorativa.