il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2016
Fenomenologia della raccomandazione
Se l’ex onorevole Carmine Nardone da Benevento, deputato del Pci-Pds per 12 anni, presidente della Provincia per 10 e dirigente del partito (Pd compreso) nei tempi morti, racconta ad Antonello Caporale di aver ricevuto in trent’anni 20 mila richieste di raccomandazione, il calcolo è presto fatto: moltiplicando il suo caso per mille (quanti sono i parlamentari) si arriva a 20 milioni di supplicanti: un italiano su tre. Ma è un’approssimazione per difetto, visto che deputati e senatori hanno una vita parlamentare media di 2-3 legislature e nell’ultimo trentennio le legislature sono 8. Quindi la cifra va perlomeno raddoppiata e arriva a 40 milioni. Poi bisogna detrarre la tara del fattore locale (la raccomandazione è più diffusa al Centro-Sud, dove lo Stato e l’economia latitano) e quella dei genuflessi seriali (chi si piega una volta poi lo fa sempre, specie se tiene famiglia numerosa). E però aggiungere ai parlamentari la pletora di amministratori locali, altrettanto raccomandatanti in cambio di voti. Vogliamo concluderne, a spanne, che metà della popolazione ha chiesto almeno una spintarella a un politico? Questo spiega molte cose dell’Italia, ben più delle statistiche sulla corruzione e gli altri reati contro la PA che, fra prescrizioni, depenalizzazioni, immunità, indulti, amnistie e condoni, fanno della Nazione più infetta la più sana.
Checco Zalone, in Quo vado?, è l’impiegato pubblico medio assediato da una pletora di questuanti che lo riempiono di regali in cambio del fatidico “timbro”: cioè di un atto pubblico a cui, perlopiù, avrebbero diritto gratis come cittadini a schiena dritta e che invece vivono come un favore da chiedere come clientes a schiena curva e dunque da remunerare, in soldi o in natura. Mitica la scena del postulante che, per un normale certificato, gli dona una quaglia e domanda: “Non sarà corruzione o concussione?”. Checco (che nella vita è laureato in legge) risponde: “No, è educazione”. Lui infatti non ha chiesto niente e il pezzo di carta è un atto dovuto. Le cose non stanno proprio così: anche “il pubblico ufficiale, che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, riceve indebitamente… denaro o altra utilità” è un corrotto, anche se non ha chiesto niente (art. 318 Codice penale). Però Zalone dà voce a un andazzo diffuso: non ho fatto male a nessuno, quindi dov’è il reato? Il “male” sta nel fatto che la burocrazia è lenta, inefficiente e distratta, dunque spesso per renderla come dovrebbe essere – rapida, efficiente e puntuale – ci vuole l’aiutino.
Che non guarisce la malattia, anzi l’aggrava e la rende endemica perchè è un ottimo sistema per ingrassare i burocrati e asservire gli utenti, lasciandoli nell’eterna condizione di schiavi, ricattabili e controllabili (soprattutto il giorno delle elezioni). Con il risultato di mandare avanti chi ha meno talento, in un’infinita corsa al ribasso che degrada i servizi pubblici e costringe i migliori a scegliere: o si prostituiscono anch’essi per ottenere come favore ciò che spetta loro di diritto; o emigrano nel privato (anch’esso inquinato dagli stessi malvezzi); o espatriano.
I pm di Mani Pulite, riflettendo sulla parabola dell’indagine che travolse la Prima Repubblica, datano il principio della fine a due filoni d’inchiesta: le tangenti alla Guardia di Finanza per addomesticare le verifiche fiscali e quelle al Distretto militare per esentare dalla naja i figli di papà. “Finchè – disse Borrelli – si trattò di colpire i grandi della politica, non ci furono grandi reazioni contrarie, anzi. Ma quando si andò oltre, apparve chiaro che la corruzione non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società: investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso. Il cittadino medio ebbe la sensazione che i “moralisti” della Procura di Milano volessero davvero passare lo straccio bagnato su tutta la facciata del Paese, sulla coscienza civile di tutti gli italiani. Parlo del cittadino medio che vive spesso di piccoli espedienti, amicizie, raccomandazioni, mancette per campare e rimediare all’inefficienza della PA. A quel punto la gente cominciò a dire: “Adesso basta, avete fatto il vostro lavoro, ci avete liberato dalla piovra della vecchia classe politica che ci succhiava il sangue, ma ora lasciateci campare in pace”. Campare, non vivere. Che è tutt’altra cosa. Infatti non c’è governo o partito che non ci abbia promesso meritocrazia e non ci abbia dato demeritocrazia: perchè la corruzione spicciola gode di un consenso di massa.
Nell’antica Roma la spintarella si chiamava littera commendaticia e nel 1700 “lettera di preghiera” (in Francia si dice coup de piston). Il Fascismo fece affiggere cartelli in tutti gli uffici pubblici: “Non si fanno raccomandazioni, è abolita la stretta di mano, è abolito il lei, il fascista sale a piedi”. Poi il camerata magari saliva a piedi, ma le raccomandazioni le faceva eccome. A cominciare dal Duce e dai gerarchi. Starace aveva un bel ripetere, nei suoi fogli d’ordine, che la raccomandazione “è vietata ai fascisti” perché “il costume fascista ha abituato a contare esclusivamente sulle proprie forze”. Nell’archivio del ministro delle Finanze Mosconi fu rinvenuto un timbro con le voci Raccomandato, Raccomandante, Persona a cui si raccomanda, Argomento. Alla Leopolda 2011, il giovane Renzi annunciò: “Vogliamo un’Italia fondata non sulle conoscenze, ma sulla conoscenza”. La conoscenza di Renzi, voleva dire, visto il numero esorbitante di amici suoi o di papà, perlopiù fiorentini, che ha sistemato. “Mal costume, mezzo gaudio”, scherzava Totò. E il guaio è proprio questo: che ancora se ne ride.