Corriere della Sera, 7 gennaio 2016
Alla sede Apple di Cupertino ci sono solo due regole sull’abbigliamento: nessuna regola e nessuna cravatta
CUPERTINO (Stati Uniti) La executive suite di Apple, l’area dove vengono prese tutte le decisioni importanti, è più modesta di quella di qualunque grande azienda italiana. Arredi lineari, spazi sgombri, eleganza essenziale. Niente lusso. Poco importa che il gruppo fondato da Steve Jobs valga da solo quasi il doppio dell’intero listino di Piazza Affari: gli uffici di alcuni dei massimi dirigenti all’indirizzo di 1, Infinite Loop, sono stanze normali. E le sale riunioni sarebbero state considerate indegne in qualunque delle banche di provincia fallite negli ultimi mesi, da Teramo a Ferrara.
Non è avarizia. Non è eccesso di modestia. Non per un gruppo che ha trasformato lo stile di vita di miliardi di persone e ogni trimestre genera cassa per 15 miliardi di dollari, al punto che i 318 milioni di tasse arretrate appena riconosciute all’Italia equivalgono al massimo a uno o due giorni di guadagni di mercato per le riserve di liquidità aziendale. No, qui a Cupertino il senso della misura ha parametri diversi. La nuova sede in costruzione poco lontano, disegnata da Norman Forster, è destinata a costare un’imprecisata cifra macroeconomica.
Per ora però nella semplicità di Infinite Loop, il «cerchio infinito» di Cupertino, è insito il messaggio che chi detiene realmente il potere non ha bisogno di sottolinearlo. E che un’impresa di Silicon Valley deve sempre rigorosamente assomigliare a un campus universitario. Nel patio d’ingresso, fra gli alberi sotto le vetrate e la caffetteria dove pagare in contanti non è ammesso, salta all’occhio che il codice di abbigliamento ha solo due regole non scritte. La prima è che non ci sono regole. Ma la seconda è che non ci sono cravatte.
Quest’obbligo di informalità ricorda che qui la gente è giovane, entusiasta, ancora capace di innovare in modo devastante. Forse è proprio su questo che l’azienda dal più alto valore di Borsa al mondo ha bisogno di rassicurare in primo luogo se stessa. L’età media del personale è di appena 35 anni, esattamente pari a quella dell’impresa stessa dal giorno della fondazione in un garage poco lontano da qua. Ma a Facebook l’età media dello staff è di 25 anni e gran parte delle imprese tecnologiche in quest’area sono nate nell’ultimo decennio, quando Apple aveva già consumato buona parte della sua epopea. Tutti nel campus di Infinite Loop sono acutamente coscienti che i vicini di distretto vedono in loro dei dinosauri. Dei sopravvissuti che ancora fanno hardware, oggetti fisici che vanno sul mercato dietro una vetrina, in un mondo che ormai punta tutto sul software e sui servizi.
La sfida di Cupertino oggi non è di superare l’eredità di Steve Jobs – quella è già vinta – ma restare dinamici e inventivi dopo essere diventati giganteschi e maturi. Non è scontato. Le successive generazioni dell’iPhone 6 sono state un successo tale che oggi rappresentano il 69% del fatturato della Apple, circa 150 miliardi di dollari all’anno: basta una flessione delle vendite o il flop di una nuova versione di smartphone per piegare il titolo in Borsa. Proprio questa settimana la notizia del taglio di un terzo della produzione degli iPhone 6 fra gennaio e marzo, perché le vendite sono più lente del previsto, ha spazzato via 15 miliardi dal valore di mercato della società. Apple vale ancora 566 miliardi di dollari, un terzo del reddito dell’Italia, eppure viene stimata dagli investitori con la diffidenza che di solito si riserva a certe imprese industriali un po’ obsolete: il titolo viaggia su quotazioni che implicano un rapporto fra prezzi e utili due volte e mezzo più debole di quello prevalente oggi a Wall Street. Fosse allineato alle valutazioni delle altre società sui listini di New York, Cupertino oggi varrebbe come il prodotto interno lordo italiano.
Invece non succede. Apple guadagna più di chiunque altro, eppure vive in un universo separato rispetto all’atmosfera da bolla finanziaria che è tornata ad avvolgere il resto della Silicon Valley. Gli «unicorni», le start-up valutate dai loro primi investitori privati almeno un miliardo di dollari, hanno già platealmente iniziato a perdere colpi al momento dell’approdo a Wall Street. Società come Square (pagamenti mobili), Box (condivisione di file elettronici) o Hortonworks (Big data) sono crollate subito dopo l’affaccio sui listini; altre faticano più di prima a trovare finanziatori e quotarsi.
Forse l’esplosione di un’altra bolla tecnologica non è lontana, ma il sospetto non fa che rendere Apple più guardinga. Nel 2016 punterà a far capire che vende anche e soprattutto servizi – da Apple Stores, iTunes, e la nuova Apple Music – attraverso smartphone che molti clienti non possono certo ricomprarsi ogni anno. Meno chiara è la risposta all’altro dilemma, che chiunque al mondo vorrebbe avere: che fare con riserve di cassa da 206 miliardi di dollari e destinate a crescere ancora. Alcuni azionisti suggeriscono a Apple di comprarsi Tesla, il produttore californiano di auto elettriche fondato da Elon Musk. Non è un’opzione ben vista a Cupertino, anche perché Tesla continua a perdere e i suoi quattro miliardi annui di fatturato sono superati già solo dalle vendite degli Apple Watch.
Più interessante potrebbe essere guardare all’universo del lusso o dell’alto di gamma, forse. Di sicuro Apple si trova già di fronte a un test da colosso industriale maturo: lo scontro con la Commissione Ue per i trattamenti fiscali ad aliquote molto basse in Irlanda sui ricavi registrati in tutta Europa. La contestazione da parte dell’Italia era simile, ma probabilmente non ci saranno accordi del genere con altre capitali. A Cupertino si è già capito che la condanna di Bruxelles sta arrivando e peserà per vari miliardi, ma non c’è nessuna rassegnazione. Apple ha deciso di trascinare la Commissione davanti alla Corte di giustizia europea. Se vincesse, a differenza di Microsoft qualche anno fa, quella sì che sarebbe davvero un’innovazione dirompente.