Corriere della Sera, 7 gennaio 2016
Ora tutti contro Henriette Reker, sindaco di Colonia
Quando lo scorso 17 ottobre le agenzie hanno battuto la notizia dell’attacco di un neonazista alla candidata a sindaco di Colonia, pochi nel resto della Germania avevano già sentito il nome di Henriette Reker.
Il giorno dopo, in ospedale con una ferita alla trachea causata da una lama di trenta centimetri, la leader indipendente di un’inedita alleanza anti-socialdemocratica formata da conservatori, verdi e liberali ha saputo di aver vinto al primo turno con oltre il 52% dei voti. Oggi nella Germania sotto choc per l’aggressione di massa nel cuore della tollerante Colonia, Reker è «l’altra donna» chiamata con la cancelliera Angela Merkel a gestire un evento che cambia il discorso pubblico sull’immigrazione. In pochi mesi l’ex consigliera municipale incaricata dell’accoglienza che ha dedicato la vita al sogno di una società unita nella differenza ha visto vacillare le sue certezze. Un gioco di specchi con il Paese dei cori e delle lacrime in stazione, quella nuova Germania che dopo le parole della Merkel – «Possiamo farcela» – aveva creduto in una nuova era e adesso si risveglia disorientata di fronte a un modello di integrazione che cede, a una convivenza diventata improvvisamente distante. Dove Henriette non è la sola ad aver ricevuto aggressioni fisiche e minacce di morte dall’estrema destra per essersi schierata con i rifugiati: è accaduto ai sindaci di Magdeburgo, Dresda, Reutlingen (dove Ralph Schönenborn è arrivato a dimettersi).
Avvocato, 59 anni, Reker si è spesso trovata in posizioni scomode. Ha ridimensionato le aspettative della comunità gay per il noto Carnevale perché «questa città rischia di sprofondare nelle feste e perdere di vista la cultura». Convinta sostenitrice della politica di apertura ai profughi che ha messo Merkel contro mezza Europa, ha parato con decisione le critiche sferrate alla sua amministrazione «solidale» dall’arcivescovo di Colonia Rainer Maria Woelki: «Diversamente da lui, io devo garantire un tetto a questa gente».
Era stata una delle sue promesse elettorali, migliorare le condizioni di vita dei richiedenti asilo. Quelli che dopo l’assalto di Capodanno ha cercato ancora di mettere al riparo: «Non abbiamo alcuna indicazione che tra i colpevoli vi siano profughi attualmente ospitati nei centri della città». Parole pronunciate nella stessa conferenza stampa nella quale ha consigliato d’istinto alle ragazze di «tenersi a debita distanza» dagli sconosciuti. Per la precisione, alla distanza «di un braccio», come suona l’espressione idiomatica in tedesco. La valanga di contestazioni non si è fatta attendere, con l’ironia social su quel braccio usato come un righello per delimitare il nuovo spazio della sicurezza personale che trasforma lo straniero in potenziale nemico. E soprattutto con il rifiuto di cedere alla paura accettando di rivedere i propri codici, oltre che all’eterna tentazione di colpevolizzare la donna per la violenza dell’uomo – «sono state fraintesa», si difende lei.
Uno schema simile aveva adottato anche il suo aggressore, 44enne disoccupato con una militanza neonazista alle spalle che in ottobre aveva motivato così l’assalto a colpi di coltello tra gli ombrelloni e i palloncini arancio-Cdu nel quartiere di Braunsfeld: «Reker e Merkel ci inondano di rifugiati».