la Repubblica, 7 gennaio 2016
Non è un Paese per laureati: solo uno su due trova lavoro. Peggio di noi solo la Grecia
Arranca Cipputi e arrancano anche i giovani laureati: l’Italia non è il paese del lavoro. La Grande Crisi ha reso drammatica la situazione. Negli ultimi dieci anni (quasi cinque li abbiamo trascorsi in recessione) la quota di occupati tra i neolaureati è scesa di circa 20 punti percentuali. Siamo in fondo alla classifica in Europa, poco sopra la Grecia che da anni sopravvive soltanto grazie alla terapia intensiva della Troika, Commissione di Bruxelles, Banca centrale, Fondo monetario internazionale.L’ultima ricerca di Eurostat sul tasso di occupazione tra i neolaureati dice che solo uno su due in Italia ha un lavoro dopo tre anni dal conseguimento del titolo accademico. Contro una media tra i 28 paesi dell’Unione dell’80,5 per cento e il picco tedesco che raggiunge il 93,1 per cento. E sono questi dati che spiegano molto bene perché da decenni il nostro tasso di produttività è marcatamente più basso di quello delle altre grandi economie globali, ma anche la marginalità italiana nella nuova geografia del lavoro, segnata dall’innovazione e la ricerca. Noi, appunto, arranchiamo. E un po’ facciamo da spettatori mentre gli altri (economie emergenti ma non solo, come dimostrano proprio i dati di Eurostat) cambiano con la digitalizzazione il paradigma della produzione. I pochi brevetti tricolori sul piano internazionale sono anche il frutto dei nostri pochi giovani laureati al lavoro. La crisi ha reso ancora più accidentato il percorso dalla formazione all’azienda.La partenza è già con l’handicap: su 100 giovani tra i 25 e i 34 anni solo 22 sono laureati contro una media europea del 37 per cento e una Ocse (ne fanno parte le economie più avanzate) pari al 39 per cento. Sia chiaro, il titolo universitario facilita (se così si può dire) l’accesso al lavoro. L’ultimo rapporto di AlmaLaurea dimostra che il tasso di disoccupazione tra i neolaureati è cresciuto negli anni della crisi (2007-2014) dell’8,2 per cento, ma di quasi il 17 per cento per i neodiplomati. Così la percentuale di occupati (dato più significativo rispetto a quello relativo ai disoccupati) tra le persone di età compresa tra i 20 e i 34 anni uscite dal percorso formativo è del 45 per cento in Italia, più di trenta punti di distanza dal 76 per cento della media europea. Anche su questo fronte a guidare la classifica è la Germania (90 per cento) che ha costruito la sua ripresa all’inizio del secolo proprio scommettendo sulla connessione scuola-lavoro, ma vanno bene pure la Gran Bretagna (83,2 per cento) e la Francia (75,2 per cento).E più si scende nella qualità del titolo posseduto più ci si allontana dal lavoro: per i diplomi non professionali si registra appena il 30,5 per cento di occupati a tre anni dal conseguimento del titolo contro il 59,8 per cento della media Ue e il 67 per cento della Germania.La crisi economica si è scaricata soprattutto sui giovani, ma ad incidere sulla loro difficoltà a trovare un impiego sono state anche le riforme previdenziali degli ultimi decenni (non solo dunque la legge Fornero, ma anche la Tremonti-Sacconi) che progressivamente hanno innalzato l’età per l’accesso alla pensione, lasciando in azienda quote di lavoratori maturi poco coinvolti (in Italia) in processi di riqualificazione continua e dunque via via meno produttivi.I problemi italiani sono strutturali e la recessione li ha peggiorati: tra il 2008 e il 2014 la media di giovani occupati a tre anni dal titolo di studio è scesa, in Europa, di otto punti (dall’82 al 76 per cento), in Italia è crollata di oltre 20 punti (dal 65,2 al 45 per cento). Questa è ancora la nostra crisi.