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 2016  gennaio 07 Giovedì calendario

È stata uccisa Ruqia Hassan, la trentenne siriana che raccontava su Internet la disperata e scura vita di Raqqa

Non potevano accettare che rendesse pubblico il suo dissenso. E che raccontasse dal suo blog la vita quotidiana di Raqqa al tempo del Califfato Nero e dei bombardamenti. Donna, reporter e oppositrice: del regime di Assad ma anche dell’Is. Tre tipi di identità, politica, di genere e culturale, che gli islamisti radicali non amano. Tanto più quando chi le esprime non si piega alla loro totalizzante concezione del mondo. Così Ruqia Hassan, la giovane siriana che raccontava su Internet la disperata e scura vita di Raqqa «massacrata nel silenzio», è stata uccisa dagli jihadisti.
Ruqia alimentava un citizen journalism dal fronte che resta, sia pure senza la possibilità di fare verifiche indipendenti sul campo, una delle poche fonti in loco di un conflitto che ci viene mostrato o con il volto propagandistico dello jihadismo o attraverso le immagini, apparentemente asettiche, di droni e satelliti che lanciano, o guidano sul bersaglio, ordigni che, difficilmente, non producono “danni collaterali”. Lo faceva utilizzando i social network sotto lo pseudonimo di Nissan Ibrahim. Raccontava, Ruqia, del nuovo ordine del terrore e dei bombardamenti aerei della coalizione, quella a guida americana e araba, che lo combatte. Aveva ironizzato in Rete sulla decisione del Califfato di tagliare gli hot spot wi-fi e regolare l’accesso agli internet cafè, divenuti, dopo l’intensificazione del conflitto, una duplice minaccia: perché consentono la localizzazione dei mujahidin da parte di nemici sofisticati tecnologicamente e alimentano un uso smodato e personalistico, fuori dal controllo del Grande Fratello islamista che gestisce e monta, con grande abilità comunicativa e perizia tecnica, l’enorme produzione dal basso jihadista inviata alle case produttrici del Califfato, come Al Furqan o Al Hayat. Produzione che fa spesso storcere il naso ai leader radicali fautori di un “etica del jihad” legata più a una concezione purista, anche se non meno sanguinaria della guerra, che all’individualismo esasperato simboleggiato dai narcisistici e autocompulsivi selfie dei combattenti in kalashnikov. «Avanti, tagliateci Internet, i nostri piccioni viaggiatori non se ne lamenteranno», commentava con le sue taglienti parole Ruqia.
Aveva studiato filosofia ad Aleppo e partecipato sin dall’inizio della rivolta contro il regime di Assad. Come molti altri suoi concittadini, non aveva lasciato la città quando era stata occupata l’Is. Nel suo ultimo post del 21 luglio scorso, che ora appare pieno di cupi presentimenti, dice di essere ancora a Raqqa e di aver ricevuto minacce di morte. Amaramente ma orgogliosamente, scriverà: «Quando l’Is mi arresterà e decapiterà, avrò perso la testa ma mi sarà rimasta la dignità : perché non avrò vissuto subendo umiliazioni».
Un’umiliazione che, nemmeno l’accusa di essere una spia, tipica dei conflitti ideologici in cui il conflitto è totale e il mondo viene letto secondo la logica amico/nemico, le ha forse inflitto. Anche se, purtroppo, non è difficile immaginare il vertiginoso precipizio in cui è caduta nel momento del suo arresto. Per mesi l’Is aveva sostenuto che fosse ancora viva, ora la conferma dell’esecuzione. Alcuni si chiedono se i membri della divisione informatica del Califfato, abbiano usato il suo account dopo l’arreso per snidare altre “spie”. Nella spregiudicata cyberwar che contrappone l’Is alle “forze dell’empietà” simili operazioni non sono escluse. Il controllo della Rete è uno delle attività in cui l’Is è più impegnato nella città siriana. Come dimostra anche l’esecuzione di cinque uomini accusati di essere spie da parte del “nuovo Jihadi John”, il convertito britannico comparso nel video delle esecuzioni. Le vittime hanno tra l’altro “confessato”, nell’ennesima puntata del “buio a mezzogiorno” in versione mesopotamica, di aver violato le regole e inviato foto dagli internet cafè di Raqqa, Alla famiglia l’Is ha comunicato di aver giustiziato Ruqia in quanto “sahawat”, termine dispregiativo che viene usato nella vulgata radicale per indicare i “traditori” dell’Esercito Siriano Libero. Chissà se ne restituiranno il corpo o se, nel tentativo di infliggerle quell’ ultima umiliazione alla quale lei voleva sfuggire, i suoi resti non saranno nemmeno riconsegnati.