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 2016  gennaio 07 Giovedì calendario

Sul petrolio che è tornato sotto i 35 dollari al barile, nonostante le tensioni tra Arabia e Iran

Neanche una bomba atomica rianima il petrolio, ieri inesorabilmente sceso sotto quota 35 dollari al barile, su tutt’e due le sponde dell’Atlantico (ieri Brent a 34,31 dollari e Wti a 33,97). Del resto, a fermare il crollo a candela del greggio non era riuscito neppure lo scontro a muso duro fra i due maggiori produttori del Medio Oriente, Arabia saudita e Iran, che pure si guardano ad un tiro di cannone dai due lati dello stretto di Hormuz, dove passa il 40 per cento del petrolio venduto sui mercati internazionali. Nei cinque giorni da quando Riad, venerdì scorso, ha giustiziato un religioso sciita, innescando lo scontro, il barile ha perso l’8 per cento. Fino a poco più di un anno fa, la notizia che gli estremisti islamici attaccavano le installazioni petrolifere in Libia avrebbe fatto schizzare le quotazioni a livelli record.
Ieri, l’attacco e l’incendio di cinque serbatoi nei porti libici sono stati accolti con uno sbadiglio. Un’era, quella dell’oro nero, sembra sulla via di concludersi. L’esperienza degli ultimi cinquant’anni dice che, quando il prezzo del petrolio scende troppo, gli investimenti si fermano, se ne estrae di meno e la domanda insoddisfatta fa risalire il prezzo. Sono convinti che funzioni ancora così alla Commerzbank, i cui analisti pronosticano il petrolio almeno a 60 dollari a fine anno. Ma, forse, sono rimasti indietro. I loro colleghi della Goldman Sachs, la banca con il portafoglio più importante al mondo sul greggio, lo vedono, invece, a 20 dollari. E, comunque, non la bevono i mercati. Sia in America che in Europa, gli operatori trattano il petrolio con consegna a dicembre 2016 poco sopra i 40 dollari. Neanche per il 2023 le quotazioni dei futures risalgono a 60 dollari.
Semplicemente, di greggio ce n’è troppo. Stracolmi i depositi a terra, ci sono cento milioni di barili – un giorno di consumi globali – a galleggiare nelle stive delle petroliere all’ancora, noleggiate per conservare il petrolio che nessuno vuole. I conti, sia pure ad occhio, sono facili da fare. Le nuove tecniche di trivellazione – il fracking – hanno fatto comparire dal nulla, in America, quattro milioni di barili di greggio al giorno. Due milioni in più di quanto ne chieda, oggi, il mercato. Nè i frackers, nè i sauditi, nè i russi sono disposti a tagliare quei due milioni di barili per riequilibrare domanda e offerta. Inondato di greggio, il mercato continua a far crollare il prezzo. L’interpretazione più diffusa della mancata reazione del barile allo scontro Riad-Teheran segue un copione tradizionale. Se sauditi e iraniani litigano, si dice, è più difficile che si mettano d’accordo per un taglio comune della produzione, che faccia risalire i prezzi. In realtà, l’idea di un accordo del genere non trova appigli da nessuna parte. Gli iraniani, che stanno per riaffacciarsi sul mercato, grazie alla fine delle sanzioni, vogliono che siano gli altri a tagliare la produzione, per fare spazio alla loro, senza incidere sui prezzi. Nessuno, dai sauditi in giù, pensa di fare una cosa del genere, che colpirebbe i suoi introiti. E, infatti, in questo momento, nell’Opec, ognuno pompa più che può. Più che l’accordo mancato, pesa invece sul prezzo del petrolio proprio il ritorno sul mercato degli iraniani. La strategia saudita di far scendere le quotazioni per far sballare i conti dei nuovi petrolieri americani sta avendo successo: nelle praterie del Texas e del Nebraska i fallimenti si moltiplicano. Gli esperti calcolano che, nel 2016, i frackers produrranno 500 mila – 1 milione di barili di greggio (al giorno) in meno. Il problema è che questo buco sarà colmato dalla nuova produzione iraniana, mantenendo inalterato lo squilibrio fra domanda e offerta. Guardando più lontano, tuttavia, si vede che lo squilibrio è frutto anche dei cambiamenti permanenti della domanda. Il mondo non ha più sete di petrolio. Ogni dollaro di prodotto interno lordo, negli Usa, contiene il 25 per cento di greggio in meno, rispetto a venti anni fa. In Cina il 33 per cento. In Occidente, la domanda di petrolio sta scendendo rapidamente. L’Europa consumava 671 milioni di tonnellate nel 2004, 549 milioni, il 20 per cento in meno, dieci anni dopo. L’Italia bruciava nei motori delle auto 14,7 milioni di tonnellate di benzina nel 2002. Nel 2015, 7,1 milioni, meno della metà. Il gasolio ha retto meglio, ma, fra il 2010 e il 2015, il consumo è sceso del 10 per cento.
Negli Usa stanno tornando di moda i Suv, ma difficilmente questo basterà a invertire la tendenza, che vede sempre meno giovani con la patente in tasca. Secondo gli esperti, questa discesa dei consumi in Occidente doveva essere più o meno compensata da un aumento di pari entità nei paesi emergenti, soprattutto Cina e India. Il rallentamento dell’economia cinese spinge in direzione opposta. Il mercato ha preso nota.