7 gennaio 2016
In morte di Pierre Boulez
Enrico Girardi per il Corriere della Sera
Con la morte di Pierre Boulez, avvenuta nella notte tra il 5 e il 6 gennaio a Baden Baden, dove risiedeva da anni insieme con il suo compagno, scompare la figura più influente nel mondo musicale dal secondo dopoguerra a oggi. La figura, cioè, che nelle sue molteplici vesti di compositore, direttore d’orchestra, saggista e organizzatore musicale, ha sempre dettato una linea, un orientamento, una «filosofia» della musica, dalla quale anche il detrattore più acerrimo non ha potuto prescindere, indipendentemente dall’opinione che poteva avere sul suo operato.
Il tratto umano era squisito. Pierre Boulez era uomo elegante e riservato, sobrio nell’esprimere il suo pensiero, molto attento a quanto gli comunicasse l’interlocutore di turno, fosse il giornalista a caccia di scoop, il giovane compositore in cerca della propria strada o l’interprete con cui avrebbe sostenuto un concerto l’indomani. A Salisburgo cenava sempre al ristorante K und K. Tutti perciò sapevano che, per avere la sua opinione su qualunque cosa, bastava recarsi in quel locale e chiedere cinque minuti della sua attenzione. Le opinioni, poi, erano nette, a volte dure, ma sapeva comunicarle con la pacatezza dei forti.
La cosa singolare è che un uomo del genere, per certi versi anche un po’ timido, abbia dettato legge sulla vita musicale internazionale più di ogni altro, e a tal punto che capitava spesso che lo si sentisse qualificare come un «dittatore». Specie nelle Accademie, per la semplice ragione che da quando nel 1970 fondò l’Ircam – istituto unico al mondo per lo sviluppo e la produzione della nuova musica – non c’è quasi compositore europeo che non vi si sia recato per una specializzazione, un tirocinio, un dottorato o un praticantato di prestigio. E la stessa cosa, vera per i compositori, vale per gli interpreti, tanto che due direttori d’orchestra lontani anni luce dal suo universo interpretativo, come Daniel Barenboim e Riccardo Muti, non solo hanno sempre espresso parole di enorme stima nei suoi confronti, ma stabilito con lui un rapporto di continuo confronto e reciproco arricchimento artistico. Esemplare, per asciuttezza, è stato anche il suo atteggiamento sempre rispettoso nei confronti dei professori delle prestigiose orchestre, di Londra, Vienna, Chicago, Milano, Berlino, New York o Parigi, che ha guidato fino al 2013, finché le forze lo hanno sorretto.
Tra le guide del giovane Boulez studente al Conservatorio di Parigi vi sono due maestri che più diversi tra loro è difficile immaginare. Il primo era René Leibowitz, alfiere della musica seriale dei tre giganti della Scuola di Vienna (Schönberg, Berg e Webern); l’altro era Olivier Messiaen, che con la sua maniacale attenzione ai suoni di natura, e in particolare al canto degli uccelli, apriva occhi e orecchie ai suoi studenti sul fatto che la musica non fosse solo struttura ma anche colore, suono, timbro, «odore».
Gli esordi furono improntati alla lezione del primo dei due. Il prosieguo della carriera al secondo. Appartenente a una generazione scottata dagli aspetti deteriori della cultura europea – nel 1945 il musicista della Loira compiva 20 anni – e mosso dallo stesso presupposto di Stockhausen, Nono e Maderna (con i quali diede inizio nel 1947 ai celebri Corsi estivi di Darmstadt) che occorresse fare tabula rasa del passato, Boulez debuttò scrivendo musiche improntate a un ferreo strutturalismo, basate cioè sulla sistematica razionalizzazione di tutti i parametri sonori: altezze, ritmi, dinamiche, modi d’attacco. Era la stagione del cosiddetto serialismo integrale. E Boulez si proponeva come artefice di una ricostruzione del mondo musicale basata sullo scientismo. Pezzi come le Structures per due pianoforti affermavano la sua volontà di una musica antiespressiva di cui il compositore potesse controllare ogni aspetto su basi limpidamente logiche: complessi teoremi di specchi, relazioni, numeri e geometrie. E nel 1952 scriveva il polemico saggio Schönberg è morto, audace metafora per dire che era morto, con Schönberg, il principio «romantico» di un’arte intesa come luogo in cui esprimere sentimenti soggettivi.
Parimenti, come direttore fu il primo a innestare un approccio squisitamente analitico alle partiture che concertava: una lettura talmente rigorosa che da tali maglie non fuoriusciva nemmeno l’ombra di una concessione al compiacimento emotivo. Naturale fu dunque per lui anche l’approccio alla musica elettronica che, incisa su nastro, gli permetteva di eliminare anche quel tanto di incognito che era rappresentato dall’emotività dell’interprete.
Come tutti i «freddi», nel prosieguo della carriera si è poi aperto a un rapporto più libero con la materia sonora, sia acustica, sia elettronica, sia informatica, senza per questo venir meno all’idea antiromantica che l’arte è un edificio oggettivo da costruire sfruttando le risorse del pensiero e di una instancabile ricerca del nuovo.
Leonetta Bentivoglio per la Repubblica
La morte del compositore francese Pierre Boulez, scomparso l’altra notte a novant’anni nella città tedesca di Baden Baden, dove viveva da tempo, equivale alla fine del Novecento musicale. Come un riflesso iconico, Boulez condensa lo spirito di un’epoca colma di conflitti, scoperte, rivoluzioni linguistiche, contraddizioni e disillusioni. Ed è una storia che rispecchia in pieno, per ardore e complessità, l’indole di un musicista abitato da rivolte linguistiche, perenne rabbia anti-conservativa e aspirazione a un’identità proteiforme, immersa nella voglia di contaminarsi con l’organizzazione del mondo musicale. Per questo e altro “Boul”, come lo chiamavano gli aficionados, fu non solo
un geniale musicista, ma uno dei più autorevoli intellettuali tout-court che abbiano animato e rappresentato il Ventesimo secolo. Fu compositore, certo; ma anche celebrato direttore d’orchestra, insuperabile nelle interpretazioni di autori quali Bartòk e Stravinskij, e capace di rileggere le sinfonie mahleriane con abilità strutturale e fertile anti-sentimentalismo.
Quanto alle opere di Wagner, Boulez ha saputo restituircene i paesaggi come cattedrali di limpidezza architettonica. Fu anche un acuto saggista, un pedagogo formidabile e un instancabile promotore di utopie; pronto a lottare, costruire e trasmettere, assumendosi il rischio della non amabile invettiva. Lungo l’arco del suo viaggio, che dall’avvio nel ruolo di enfant terrible è approdato a quello di Grand Seigneur delle avanguardie europee, ha segnato la fisionomia della propria arte con una determinazione e una capillarità senza confronti.
Ebbe fama di acre estremista; perciò fu tanto amato e ammirato quanto biasimato e odiato. Estraneo a compromessi, radicale nell’approccio alla composizione, era intollerante verso chi non condivideva le sue posizioni. Eppure a incontrarlo, per lo meno negli ultimi anni, appariva come un vecchio dolce, elegante, sottilmente malinconico e splendido per semplicità. Elargiva le proprie idee all’interlocutore con una chiarezza stellata e mai vanesia. E vederlo provare con le orchestre era emozionante, grazie a un gesto direttoriale premiato dal dono dell’evidenza e da una concretezza analitica da supremo campione dell’artigianato musicale. Figlio dell’alta borghesia francese (il padre era un industriale), nacque nel ’25 a Montbrison, nella Loira. Giunse alla musica giovanissimo, dopo studi di matematica a Lione, e al Conservatorio di Parigi venne ammesso nella classe di armonia di Olivier Messiaen, suo maestro di riferimento insieme ad Andrée Vaurabourg (moglie di Arthur Honegger) e a René Leibowitz, che lo introdusse alla tecnica dodecafonica.
A vent’anni Pierre diventa direttore musicale della compagnia teatrale di Jean-Louis Barrault, e malgrado quest’apprendistato non scriverà mai un’opera di teatro, come se il suo universo sonoro si fosse votato all’astrazione. Risalgono al ’46 le prime composizioni, come Sonatine per flauto e piano, la Première Sonate per pianoforte e la prima versione di Visage Nuptial.
Con pezzi quali Structures (1952-61), Le marteau sans maître (1954), Pli selon Pli (1957-62), Eclat/ Multiples (1964-70) e Rituel in memoriam Maderna (1975), Boulez s’impone come uno dei massimi innovatori del linguaggio dal dopoguerra in poi, insieme a Berio, Nono, Stockhausen e Ligeti. Le sue musiche difficili e refrattarie a contaminazioni stilistiche spiccano per “stupefacente trasparenza”, come disse l’amico Berio.
Intanto vola la sua carriera di direttore d’orchestra. Nel ’63 è sul podio del debutto in Francia del Wozzeck di Berg all’Opéra di Parigi e nel ’66 dirige
Parsifal a Bayreuth. Dal ’71 al ’77 ha l’incarico di guida della Filarmonica di New York, succedendo a Leonard Bernstein, e un’altra delle sue orchestre sarà la Bbc Symphony a Londra dal ’71 al ’75. Lungo cinque anni, dal ’76, dirige il Ring a Bayreuth con la regia di Patrice Chéreau, produzione leggendaria; ed è a lui che spetta l’esecuzione della prima mondiale della versione integrale della Lulu di Berg nel ’79 a Parigi.
Nel frattempo si fa largo il Boulez saggista, autore di libri tanto tecnici ed estetici quanto polemici ( Penser la musique d’aujourd’hui, Relevés d’apprenti, Points de repère, Leçons de musique) che raccolgono spesso sue conferenze e lezioni (a Darmstadt, a Basilea, a Cambridge) e dove ai discorsi musicali s’intrecciano osservazioni su pittura, letteratura e filosofia (geniale il suo saggio su Paul Klee Le pays fertile).
Il coronamento del suo percorso di didatta avviene con la nomina di professore al Collège de France (1976-91), su proposta di Michel Foucault. In più Boulez si afferma come stratega della cultura musicale, fondando l’Ircam di Parigi, centro per la ricerca sulla nuova musica e le più avanzate tecnologie sonore, dove si esprime appieno il suo interesse per l’elettronica. E a lui si deve la genesi dell’Ensemble Intercontemporain, gruppo dedicato alla musica del nostro tempo. Come ispiratore e consulente (tutti i go- verni in Francia lo hanno temuto e rispettato), è stato inoltre coinvolto in realizzazioni quali la costruzione dell’Opéra Bastille e della Cité de la Musique di Parigi. Nel ’92 aveva deciso di lasciare la guida dell’Ircam per consacrarsi alla direzione e alla composizione.
Questo secondo territorio gli stava particolarmente a cuore, e in vecchiaia si lamentava di non avergli saputo dare abbastanza, troppo preso dalle tempeste di tutto il resto. Negli anni Ottanta nacquero sue opere importanti come Notations, Répons e Dialogue de l’ombre double, e nei Novanta indagò la spazializzazione del suono con … explosante fixe…. A dispetto di certi suoi dogmatismi verbali, non cessò mai di alimentare la sua fame sperimentale tutt’altro che intransigente, come testimoniano le commissioni che fece all’Ircam a un musicista libero e anti-classico come Frank Zappa.
Il sommo Boul indicava strade, poneva quesiti, inaugurava dimensioni, cercava forsennatamente il futuro. Questa è la sua eredità.
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Sandro Cappelletto per La Stampa
«Voglio dire questo ai ragazzi di oggi: cercate sempre di essere voi stessi, perché se inseguite le mode, ogni due anni sarete fuori moda».
Addio Pierre Boulez, maestro di musica e di pensieri. Il compositore, direttore d’orchestra, didatta, saggista, organizzatore culturale francese si è spento martedì - lucidissimo nell’intelligenza, stanco e danneggiato nel corpo - a Baden-Baden, la località tedesca dove si era ritirato da qualche tempo. Nato a Montbrison, nella regione della Loira, sotto il segno dell’Ariete, a marzo avrebbe compiuto 91 anni. Era l’ultimo dei «giganti» degli anni Venti del Novecento: Bruno Maderna (1920-1973), Luigi Nono (1924-1990), Luciano Berio (1925-2003), Karlheinz Stockhausen (1928-2007), György Ligeti (1923-2006), Henri Pousseur (1929-2009).
I ricordi si sovrappongono, indelebili per chi è cresciuto avendo lui come un costante punto di riferimento. Perché Boulez è stato un artista come oggi ce ne sono pochi: fantasioso e concreto, non servile, pronto a pungolare il potere, mai a perdere tempo con piccole polemiche di bottega, sempre impegnato a guardare l’orizzonte, tutto, e oltre. Rimanendo se stesso: «Non avere successo subito non significa nulla; come il contrario: si può avere successo in vita e poi venire rapidamente dimenticati. La storia dell’arte è piena di casi del genere. Pensiamo a Mozart, che in vita ha conosciuto e perduto il successo. Lo so che è difficile, l’ansia di successo condiziona molto».
Scopre «il mondo dei suoni» da bambino ascoltando la radio, suona Chopin al pianoforte, a diciott’anni è a Parigi, allievo di Olivier Messiaen, a venti viene assunto come «direttore musicale» della Compagnia teatrale di Jean-Louis Barrault e Madeleine Renaud: gira il mondo nelle tournée, scrive musiche di scena, ma l’esperienza, decisiva anche per la sua futura carriera di direttore, non gli farà mai provare l’ebbrezza per il teatro musicale. In un catalogo di opere numeroso e vario, spicca l’assenza di un titolo operistico.
Nel 1948 compone la Seconda Sonata per pianoforte. «Un’opera che rimane fondamentale, per il rigore formale della costruzione, la novità del linguaggio, la conoscenza delle possibilità dello strumento. Sono affranto, non riesco a pensare alla perdita dell’amico di una vita», ricorda oggi Maurizio Pollini, interprete decisivo per la divulgazione di questo brano. L’ultima volta a Parigi lo scorso marzo, durante le celebrazioni per i novant’anni di Boulez, culminate nella grande mostra che gli ha dedicato la Philharmonie de Paris.
Novità e forma: due caratteristiche costanti nell’opera del Maestro, assieme alla predilezione per i testi dei poeti simbolisti e di Stéphane Mallarmé, alla ricerca di un suono mobile, mai avaro, alla persuasione che non esistono definitivi punti di arrivo. Nel 1979, ricevendo il premio Siemens, ricorda un proverbio portoghese amato anche da Paul Claudel: «Dio scrive dritto servendosi di linee curve».
Il lavoro come saggista affianca quello del compositore: nei suoi libri convivono dichiarazioni di poetica, approfondite analisi, ragionamenti di amore o di antipatia per opere di colleghi, del presente e del passato. La prosa assomiglia al gesto del direttore: essenziale, chiaro, efficace, mai esagerato a favore del pubblico. Quella di direttore d’orchestra, alla guida delle migliori compagini internazionali, è stata un’attività distintiva di Boulez, con particolare attenzione verso gli autori del Novecento. Soltanto Bruno Maderna, tra i compositori contemporanei, ha saputo raggiungere gli stessi vertici direttoriali.
Polemista formidabile scrive nel 1952 che «Schoenberg è morto», indicando ai musicisti giovani come lui che non devono limitarsi al ruolo di epigoni di chi aveva messo a punto la tecnica di composizione con i dodici suoni, la dodecafonia. E di Schoenberg (scomparso nel 1951), da Notte trasfigurata a Mosé e Aronne, darà formidabili incisioni discografiche.
Nel 1954 crea il Domaine musical, associazione concertistica dedicata alla musica contemporanea. Negli Anni Sessanta rompe con André Malraux, ministro francese della Cultura, e abbandona per qualche tempo il proprio Paese. La creazione dell’Ensemble Intercontemporain (1976) e dell’Ircam (1977), realtà nate per l’interpretazione e la ricerca della musica contemporanea segnano il momento della riconciliazione. Impossibile trovare, nei nostri tempi, un compositore altrettanto attivo e ascoltato nel campo dell’organizzazione. Sul ruolo dello Stato nel sostegno alle arti, aveva idee nette: «I mecenati privati intervengono nel campo delle arti visive e plastiche perché, nell’acquistare o tutelare un quadro, una scultura, c’è un sentimento di appropriazione del suo valore: lo pago, lo finanzio, lo possiedo. La musica invece non si compra, nella musica non vive un’idea di profitto. Pertanto, lo Stato deve continuare a essere presente. Del resto, questa è la storia dell’Europa».
Ha sempre amato viaggiare, conoscere realtà diverse. «I grandi organismi culturali devono essere internazionali: per essere informati e propositivi, per continuare ad avere una funzione. Più contatti significa più libertà. Paradossalmente oggi questo accade di meno, sento diffondersi la paura di perdere la propria identità nazionale». Boulez, lui.