7 gennaio 2016
In morte di Silvana Pampanini
Paolo Mereghetti per il Corriere della Sera
Ninì Pampan non c’è più. La prima vera diva del nostro dopoguerra, la prima «maggiorata» capace di far dimenticare agli italiani la fame e le miserie della guerra si è spenta ieri a 90 anni. Era stata operata al Gemelli di Roma a fine ottobre per un problema addominale e da subito le sue condizioni erano apparse preoccupanti tanto che era stato necessario un secondo intervento. Poi, a causa di diverse complicanze, da allora non era più uscita dalla terapia intensiva.
Aveva caparbiamente inseguito per tutta la vita, anche quando l’età aveva fatto appassire la sua rigogliosa bellezza, il mito della donna che tutti vogliono e che nessuno può davvero possedere. Non era lei la «malafemmena» cantata da Totò, che pure chiese invano la sua mano mentre giravano insieme 47 morto che parla (1950), eppure in qualche modo ne accreditò la leggenda per civetteria e innato senso dell’autopromozione.
Così come lasciò che sul suo conto corressero voci di svariati «fidanzamenti», dal re Faruk d’Egitto a William Holden, dal dittatore dominicano Trujillo a Omar Sharif pur rivendicando orgogliosamente, anche in anni recenti, il desiderio di essere chiamata «signorina».
Silvana Pampanini era nata a Roma il 25 settembre 1925, figlia di un tipografo e nipote della celebre cantante lirica Rosetta Pampanini. Per questo, mentre frequenta le magistrali studia canto e pianoforte al conservatorio di Santa Cecilia ma, a sentire i suoi ricordi pubblicati nel volume Scandalosamente Perbene (Gremese, 1996), sin da ragazza sogna il cinema.
L’occasione le si propone nel 1946, quando la maestra di canto manda a sua insaputa una foto della Pampanini al rinato concorso di Miss Italia, a Stresa.
La giuria sceglie Rossana Martini, ma il pubblico è tutto per la Pampanini, inscenando manifestazioni che solo i carabinieri riescono a frenare e costringendo la giuria a rimangiarsi il verdetto e assegnare il titolo ex aequo.
Bella, sfrontata, dotata di un corpo «collinare, arrotondato e pieno di curve» (così la descriveva il periodico Stelle d’Italia) e che lei usa abilmente per stuzzicare i desideri del pubblico, diventa da subito l’idolo di un Paese che vuole dimenticare in fretta le tristezze della guerra e che sogna tre cose: di vincere al Totocalcio, di avere una Lambretta e di passare una notte con la Pampanini.
I primi film che interpreta non sono certo dei capolavori, ma sanno mettere in evidenza la sua bellezza aggressiva e sensuale, anche giocando abilmente su allusioni e doppi sensi: nell’antologia del teatro di rivista I pompieri di Viggiù (1949), compare nel numero Censura e bikini, indossando un audacissimo – per l’epoca – costume a pois, nell’ Inafferrabile 12 (1950) usa i capelli e le mani per coprire il corpo nudo, in Bellezze in bicicletta (1951) si offre in una delle prime scene sotto la doccia del cinema italiano (sapientemente castigata dall’inquadratura), in O.K. Nerone (1951) è Poppea che si bagna nel latte di capra (coperta da una calzamaglia rosata).
Con La tratta delle bianche di Comencini e poi Processo alla città di Zampa e La presidentessa di Germi (tutti del 1952), anche il cinema d’autore si accorge di lei; e la Pampanini può finalmente uscire dal cliché della donna troppo bella per essere anche pensante. Antonio Leonviola con Noi cannibali (1953) le offre il suo ruolo forse più intenso, quello di una ballerina d’avanspettacolo che cerca di rifarsi la vita con un marginale che si arrangia col contrabbando (è Vincenzo Musolino) e le permette di dimostrare tutto il suo valore nella scena, indimenticabile, del balletto-stupro. E subito dopo Giuseppe De Santis, con Un marito per Anna Zaccheo (1952), ne conferma il valore e la bravura.
Eppure nonostante non le manchino altre prove convincenti – nel 1955 Racconti romani di Franciolini e La bella di Roma ancora di Comencini, nel 1958 La strada lunga un anno di Giuseppe De Santis – il cinema italiano sembra dimenticarsi di lei, sostituita nell’immaginario collettivo da altre «bellezze» forse più attente nel gestire la propria carriera o nel trovare influenti protettori.
In effetti, sono molti a sostenere che a far terra bruciata intorno alla Pampanini sia stato il produttore Moris Ergas, imbufalito per non essere riuscito a convincere l’attrice a sposarlo dopo tre anni di assiduo corteggiamento (dal 1953 al 1956), ma soprattutto dopo che non era riuscito a farsi restituire, nemmeno portandola in tribunale, i 31 milioni di doni (soprattutto gioielli e pellicce) che le aveva offerto.
Queste vicende giudiziarie, finite regolarmente su giornali e rotocalchi, forse aumentarono la popolarità dell’attrice ma sicuramente non le giovarono sul piano professionale e, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, i film che le vengono offerti sono sempre meno e sempre meno interessanti, se si esclude Il gaucho di Dino Risi (1964) dove però l’attrice interpreta un ruolo «ferocemente autobiografico».
E anche la partecipazione a Il tassinaro di Sordi (1983) non è niente più che un colorito (e un po’ volgare) cameo.
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Maria Pia Fusco per la Repubblica
Con i suoi occhi verdi, il sorriso, con le passeggiate in bicicletta e con quell’aria da diva perbene e spensierata che non l’ha mai abbandonata, aveva fatto innamorare gli italiani degli anni 50. E non solo. Silvana Pampanini si è spenta ieri al Policlinico Gemelli di Roma, nella città dove era nata il 25 settembre 1925.
Presenza dominante del cinema del dopoguerra, quando girava fino a otto film l’anno, aveva lavorato con i tutti i grandi: Totò, Fabrizi, Rascel, Sordi, Dapporto. Poi con Tognazzi, Mastroianni, Gassman, partecipando a commedie, film ad episodi – inL’incantevole nemica di Claudio Gora del’53 è in uno sketch con Buster Keaton - film da riviste, musicarelli, a quel cinema leggero amato dal pubblico italiano ansioso di liberarsi dalle memorie dolorose della guerra. Tra i titoli I pompieri di Viggiù di Mattoli, O. K. Nerone di Soldati, La Presidentessa di Germi. Interpretò ruoli drammatici con Comencini ( La tratta delle bianche), Zampa ( Processo alla città). E con Giuseppe De Santis che con Un marito per Anna Zaccheo, sulla vicenda di una donna che, caduta in basso, tornava padrona della sua vita, le offrì una storia protofemminista.
Alta 1,74, lunghe gambe ben modellate – esaltate in Bellezze in bicicletta in cui cantava e pedalava con Delia Scala, un successone – al cinema era arrivata grazie alla bellezza. Il sogno era emulare la zia, Rosetta Pampanini, cantante lirica, tanto che, dopo le magistrali, frequentò il Conservatorio. Una sua insegnante la iscrisse al concorso di Miss Italia del 1946, il primo del dopoguerra, e a furor di popolo la Pampanini si impose: le proteste del pubblico, con intervento dei carabinieri, costrinsero la giuria, che aveva assegnato il titolo a Rossana Martini, a cambiare il verdetto in un ex-aequo. Fu la prima miss assunta dal cinema, prima di Gina Lollobrigida e Sofia Loren.
In pochi anni la Pampanini, che alla bellezza univa un forte temperamento, diventò la prima diva italiana, la più popolare delle maggiorate, nel ’51 era l’attrice più pagata, conosciuta all’estero e, se rifiutò il richiamo di Hollywood - «Mi avevano offerto un contratto che mi impegnava per dieci anni. Per carità. Io sono nata libera» - lavorò in Messico, in Spagna, in Francia dove era l’acclamata Ninì Pampan. Era il sogno degli italiani, la donna che spezzava cuori di uomini comuni e personaggi famosi, politici come il presidente del Venezuela Jimenez, Faruk d’Egitto, Fidel Castro (prima della Lollobrigida), attori come Tyrone Power, Orson Welles, Omar Sharif. E se è smentita la leggenda della canzone Malafemmena scritta per lei (Totò l’aveva dedicata alla prima moglie), è vero il corteggiamento appassionato. «Ci eravamo appena conosciuti, quando mi arrivò a casa un cesto di fiori», scriveva la Pampanini nell’autobiografia del 1996, e con i fiori c’erano versi d’amore. «Uscivamo spessissimo a cena. Mai soli. Totò era talmente signore che voleva con noi mio padre e mia madre… Non ha mai cercato di baciarmi. O meglio, faceva la mossa, io mi tiravo indietro», scriveva e, non a caso, il titolo dell’autobiografia è Scandalosamente perbene, perché nel libro non perde occasione per ricordare che, a differenza di altre attrici che avevano sposato produttori – tutt’altro che casuale l’accenno alla Loren o alla Mangano - lei aveva fatto tutto da sola e «sul set ero sempre accompagnata da mio padre, ex tipografo, diventato il mio agente ». Nel libro, in cui le domande sono citazioni di Garcia Lorca, Neruda e Prevert - «Perché soltanto ai Poeti permetto di chiedere» – nelle risposte abbondano i nomi degli innamorati - «Ho avuto più spasimanti che mal di testa» - ma di suoi cedimenti non si parla: «Troppi sani principi mi hanno trattenuto ». L’unico uomo amato era morto un mese prima delle nozze e da allora, diceva, «non voglio più vivere le sofferenze dell’amore».
Negli anni 60 il declino. Dopo Il gaucho di Dino Risi, quasi biografico su una diva al tramonto, la Pampanini lasciò il cinema, tornando in Mazzabubu, quante corna stanno quaggiù? di Laurenti nel ’71 e poi nel ruolo di se stessa nel film dell’amico Alberto Sordi, Il tassinaro del 1983. Si ritirò a vivere con i genitori, ma senza rinunciare alla bellezza, che trucchi e interventi rendevano vistosa (piaceva molto ad Almodóvar) e senza uscire di scena. Sempre presente alle prime teatrali, ospite spesso di Domenica In e programmi vari. Tra le reazioni alla sua morte, c’è quella della Lollobrigida, 88 anni: «Nessuna rivalità, mi dispiace che se ne sia andata, ma non eravamo amiche né l’ho mai conosciuta. Lei era venuta fuori prima di me, ma le nostre strade non si sono mai incontrate».
Oltre alla vena ironica, negli ultimi anni la Pampanini amava parlare della fede religiosa, della dedizione a Sant’Antonio e a Padre Pio. «Hai fatto tanto e poi devi lasciare tutto. Allora non è meglio dedicarsi a Dio?», scriveva, poi recuperando sfrontatezza, aggiungeva: «Della morte non ho paura. Chissà le folle che mi attendono anche lassù…». Spensierata. Fino all’ultima operazione all’addome, tre mesi fa. I funerali domani a Roma alle 11, parrocchia Santa Croce di via Guido Reni.
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Fulvia Caprara per La Stampa
Nel cinema italiano del dopoguerra Silvana Pampanini, scomparsa ieri a Roma al Policlinico Gemelli dove era ricoverata da ottobre, era una stella luccicante di allegria, la ragazza che tanti uomini avrebbero voluto sposare, l’attrice a cui registi destinati alla celebrità affidavano i loro sogni. L’energia dell’epoca le apparteneva, e quel brio solare, quella voglia di vita e di rinascita, le sarebbero rimasti addosso fino all’ultimo, fino al termine di una carriera ricca e gratificante, fino a quando, negli ultimi tempi, aveva accettato prima le fiction e poi le apparizioni nei salotti tv: «Non sono mai stata lottizzata, né lettizzata - proclamava con orgoglio - , e questo non mi ha giovato». A differenza di altre dive del suo tempo, non aveva sposato un produttore che mettesse in cassaforte il suo talento e anche nella scelta dei flirt aveva sempre seguito il richiamo del gusto e non del calcolo.
«Malafemmina» per Totò
Il grande amore era precocemente morto di malattia e lei, corteggiata da principi e sovrani (l’afgano Ahmad Shah Khan, Faruq d’Egitto) oltre che da star (Tyrone Power, Omar Sharif, Orson Welles), aveva sempre spiegato che quel trauma le aveva impedito di desiderare un altro marito: «Ero pronta a lasciare tutto per l’uomo che amavo, ma lui è morto, e, da allora, al matrimonio non ho più pensato». A Totò, che l’aveva voluta in 47 morto che parla e se ne era follemente innamorato, aveva risposto di no, precisando che avrebbe potuto amarlo solo come un padre. Il grande attore incassò non senza dispiacere e, pensando a lei, scrisse Malafemmina, un classico di amore virile ferito: «Non so se sia vero che è dedicata a me - dichiarò lei anni dopo -, non voglio dispiacere nessuno, faccio come se non avessi mai capito niente...».
Nata nel 1925 a Roma, in una famiglia di origini venete, diplomata al Conservatorio, seguendo le orme della zia Rosetta, celebre soprano, Pampanini trovò presto la sua indipendenza nel lavoro, nel carattere deciso, nella disciplina con cui curava il corpo e la bellezza. Non a caso era stata eletta Miss Italia a furor di popolo, non a caso aveva coltivato la passione per la musica, non a caso, nel ’46, aveva girato il primo film a Cinecittà (L’apocalisse di Giuseppe Scotese) e, a poco a poco, aveva imparato a recitare, diretta da Mario Mattioli (I pompieri di Viggiù), da Carlo Campogalliani (Bellezze in bicicletta), da Mario Soldati (Ok Nerone). La fama legata agli occhi verdi, al vitino di vespa e alle magnifiche gambe, arrivò in Francia dove fu subito battezzata Ninì Pampam. I ruoli di cui andò più fiera vennero allora, con Un marito per Anna Zaccheo di De Santis, con Un giorno in pretura di Steno, con La bella di Roma di Comencini. Gli omaggi molto dopo, da Risi con il ruolo nel Gaucho e da Sordi con Il tassinaro.
A chi la voleva senza veli, come Tinto Brass, rispose con un diniego netto, decise presto, forse troppo, di abbandonare le scene, ma soprattutto continuò a restare se stessa fino all’ultimo, fedele all’immagine che veniva fuori, schietta, dalla sua autobiografia Scandalosamente perbene. Quando aveva un sassolino nella scarpa se lo toglieva impavida, dichiarando, per esempio, che la sua pensione era bassa perché molte produzioni non le avevano versato i contributi, che la Lollo sbagliava a sposare un uomo tanto giovane, che Veltroni aveva fatto male a non invitarla alla Festa di Roma, che non aveva idee politiche di destra, come invece sosteneva qualcuno.
Le sue certezze più piene riguardavano fascino e sensualità: «Per esprimerli basta poco, uno sguardo, un gesto delle mani, far scivolare una spallina.. ai miei tempi non era come oggi, mica si recitava con le tette e con le chiappe».
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Malcom Pagani per il Fatto Quotidiano
Vedi? Tiè, guarda” dice Silvana Pampanini schiaffeggiandosi le cosce abbronzatissime sul retro di una Ritmo gialla – “Queste nun se rifanno più e se sò procaci adesso, figurate venticinque anni fa. Hai capito?”. Alberto Sordi, alla guida di Zara 87, tassinaro logorroico che imbarca indifferentemente Giulio Andreotti, Fellini e la giovane Alessandra Mussolini, capisce benissimo: “Nun me faccia così che me manna a sbatte”, ma poi la deposita a piazza Farnese scambiandola per l’attrice sbagliata. “Arrivederla Sylva Koscina” azzarda e si becca un “Vaffanculo a te e a Zara 87” e un “Au revoir stronz” del tutto in linea con una donna che si definiva “domatrice” e ricordava come nell’Italia postbellica la trinità recitasse: “Totocalcio, Lambretta, Pampanini”.
“Con il suo costume chic” a bordo piscina, Ninì Pampan o Pan Pan, come la chiamavano i francesi, accarezzando una biografia adatta sia al romanzo che al fumetto, non abita più qui. Se ne è andata a 90 anni Silvana Pampanini, dopo qualche mese di ospedale, più “richieste di matrimonio che mal di testa da combattere” e un angolo da custodire con cura nell’immaginario degli italiani che fecero in tempo a vederla e ad ascoltarla. Innamorandosi di forme e versi: “Qui l’acqua è senza sale/ ed è dolce come te / sembra un mare artificiale / ma l’artificio in sé non c’è”, il Paese incoronò Silvana che dal canto suo si concesse allo sguardo: “In ossequio al proverbio che afferma come anche l’occhio voglia la sua parte, ho dato a molti occhi la parte richiesta”.
Visti con l’ingannevole rifrazione di oggi, i film, cinquanta in dieci anni tra il 1946 e il 1956, erano molto innocenti.
E Pampanini che si era messa alle spalle Miss Italia, l’ascendenza veneta, il diploma del Conservatorio, una teoria di flirt veri o presunti lunga come l’Autostrada del Sole e registi come Mattoli, Steno, Monicelli, Zampa, Corbucci e Soldati, riandava ai fremiti provocati sullo schermo, alle canzoni sotto la doccia di Bellezze in bicicletta: “Ero vestita”, alle autoreggenti de L’inafferabile 12 e ai bagni nel latte di Ok Nerone con una memoria giocosa: “Tutte le danzatrici venivano verso di me per coprirmi le nudità, ma in realtà, anche lì non ero affatto nuda. Avevo una specie di tutina color carne che mi avvolgeva e mi proteggeva dagli sguardi indiscreti”. I costumi adamitici, diceva Pampanini: “Li lasciavo alle controfigure” e se qualcuno, Tinto Brass nello specifico, si azzardava a rinfacciarle qualcosa: “Signorina, anche lei ha fatto il nudo, pensi a Margot di Bourgogne di Abel Gance”, Ninì Pampan ruggiva: “Ma lo vada a vedere bene – risposi a Brass – vada a Parigi e studi Abel Gance, è un regista che dà le ‘mele’ a lei e a tanti altri come lei”.
Che fosse innocente o consapevole, pentita o felice di non aver conosciuto Hollywood, che giocasse, si prendesse in giro e reagisse davvero con rabbia, era lei e sempre lei, diva moderata con simpatie democristiane che nei cinema fumosi gli spettatori pagavano per vedere. Dal musicarello al film drammatico, Pampanini restava sempre un’apparizione. L’incanto durò a lungo. Poi un’epoca tramontò e lei si fece volontariamente da parte. Risi la chiamò ancora nel ruolo di un’attrice sconfitta ne Il Gaucho. “Che può dirci del suo film?” chiede il giornalista argentino al cialtronissimo sceneggiatore venuto dall’Italia. Quello arranca in marchigiano stretto: “È una storia moderna, gapito? Un’indagine di costumi vista in una prospettiva pissicologica particolare che accendua diciamo il conflitto tra l’umano e il sociale” e Gassman la fa breve: “Si insomma, in parole povere è la storia di una mignotta”.
Negli anni, le storie cinematografiche di Silvana Pampanini diventarono via via meno frenetiche. E badare ai genitori, ritirarsi progressivamente dalle scene, lasciare il sipario alle “sgallettate” di cui si lamentava con Sordi ne Il Tassinaro, non doveva essere stato un affare semplice. A Pampanini: “anche 18 ore al giorno” lavorare piaceva. “Alla diciassettesima ora di set ero un fiore” diceva di sé, raccontando di notti sobrie, viaggi in macchina con Totò, corteggiamenti (Omar Sharif, Orson Welles, Tyrone Power) e primi baci.
Sul set de Il Segreto di Don Giovanni, distribuito dalla 20th Century Fox, le litigate tra Mastrocinque, il regista e Gino Bechi, grandissimo baritono erano all’ordine del giorno: “Io sono un grande” urlava Bechi e Mastrocinque ribatteva più forte: “Sono un grande anch’io e per di più sono anche il regista”. Pampanini era incerta. A rincuorarla, all’inizio, furono i consigli di un padre tipografo che per la figlia avrebbe sognato altro: “Silvanella, nessuno nasce maestro, ma può diventarlo”. Silvanella dovette cavarsela da sola. Lo fece senza complessi. Nella sua autobiografia, Scandalosamente per bene, dialoga con Garcia Lorca, Prevert e Neruda.