La Stampa, 6 gennaio 2016
Nel Bahrein, governato dai sunniti ma a maggioranza sciita
«Qui si vota solo per fare piacere ai sunniti». Nei sobborghi sciiti della capitale del Bahrein cova la rivolta contro la famiglia reale. È la sintesi di una regione che vede crescere la tensione fra i Paesi guida delle due correnti dell’Islam: Iran e Arabia.
Teheran ha sospeso il pellegrinaggio minore (Umra) alla Mecca. La motivazione ufficiale è «la mancanza di sicurezza» e il riferimento è alla strage di visitatori iraniani dello scorso 24 settembre, quando oltre 700 persone (oltre mille secondo altre fonti) morirono nella calca. Il senso politico è quello di dare una risposta al fronte sunnita che si è compattato attorno all’Arabia Saudita, ha visto anche il Kuwait ritirare il suo ambasciatore da Teheran, e ha trovato conforto nella condanna da parte dell’Onu dell’assalto all’ambasciata saudita in Iran, di sabato scorso.
Barricate e scontri
Mentre gli altri piccoli Stati del Golfo devono fronteggiare all’interno minoranze sciite, in Bahrein la minoranza è una maggioranza dei due terzi, che si sente esclusa e discriminata. Attorno agli hotel e i grattacieli del quartiere diplomatico, in quelli di Juffair, di Hura (dove vivono i sauditi espatriati) un imponente apparato di sicurezza, con coppie di blindati in tutte le rotonde che immettono in centro, tiene lontani i manifestanti. Ad appena qualche chilometro, nelle cittadine dalle case basse, di color bianco e ocra, ex villaggi ora quartieri periferici, al tramonto le strade diventano terra di nessuno.
A Sitra, a Diraz, a Bilad al Qadim si vedono i segni delle battaglie, l’asfalto annerito dalle molotov, i sassi, mattoni di cemento delle barricate demolite dalle forze di sicurezza. Pochissime persone in giro, perché, di giorno, un assembramento non autorizzato può costare l’arresto. Alla moschea Ansar al Adala di Diraz è in corso un’orazione funebre e gli uomini in jalabyia nera o marrone discutono davanti all’ingresso. Hussein, 42 anni, è sindacalista e lavora come supervisore in un’azienda pubblica di trasporti. Non dà il cognome per timore di essere licenziato: «La polizia carica, spara lacrimogeni, pallottole di gomma. Democrazia? Qui le elezioni sono una farsa. I collegi elettorali sono disegnati apposta per dare più seggi ai sunniti. E nelle aziende pubbliche non contiamo nulla».
Sulla moschea, e sui tetti, sventolano le bandiere nere con la scritta «Ya, Hussein», «Oh, Hussein», l’eroe degli sciiti trucidato a Karbala 1400 anni fa. La protesta unisce le ragioni religiose a quelle sociali e di cittadinanza, come confermano i dati: gli sciiti sono meno del 5 per cento degli occupati nel settore della sicurezza e nei ministeri chiave, come interni, difesa, affari esteri sono quasi assenti e non raggiungono comunque posizioni di vertice.
Duemila detenuti
Lo conferma anche Khalil Ebrahim Almarzooq, uno dei leader dell’opposizione, numero due della potente confraternita Al Wefaq. Ci riceve, in abiti occidentali, nella sede centrale: «Questo non è uno scontro religioso. In Bahrein c’è un’élite che esclude gli altri dai diritti civili e dalle posizioni di prestigio. Siccome l’élite è sunnita, gli oppressi sono sciiti. Ma è una conseguenza, non una causa. La repressione non fermerà le proteste. Ci sono duemila persone in carcere per ragioni politiche. La commissione d’inchiesta voluta dallo stesso re ha denunciato torture sistematiche. Il nostro leader Sheikh Ali Salman è in prigione per un discorso di critiche al governo, pronunciato in pubblico, lo accusano di tentativo di rovesciamento dello Stato».
Stesse accuse che sono costate la vita, in Arabia Saudita, al religioso Nimr al Nimr. «Se sarà condannato Sheikh Ali Salman – avverte Almarzooq – ci sarà un’esplosione di rabbia che neanche noi potremo controllare».
«Teheran ci destabilizza»
In Bahrein, Paese di 1,3 milioni di abitanti (il 55% sono immigrati), ci sono 10 condannati a morte in attesa di esecuzione. Un giro di vite che avvicina il Regno agli standard della vicina Arabia Saudita ma che secondo Riad Kahwaji, direttore dell’Istituto di studi strategici Inegma, con sede a Doha, è dovuto «all’azione destabilizzatrice» dell’Iran: «Per due secoli sciiti e sunniti sono vissuti in pace in Bahrein – continua Kahwaji -. Da trent’anni a questa parte è un’escalation. È chiaro che Teheran sta alimentando le proteste. Ma non farà breccia né in Bahrein, né tantomeno negli altri Paesi del Golfo. Seguiranno altre rotture diplomatiche. Lo vedremo alla riunione della Lega araba al Cairo fra pochi giorni».
Già ieri il Bahrein ha deciso di sospendere tutti i voli con l’Iran, in linea con l’Arabia saudita, mentre il Kuwait ha ritirato il suo ambasciatore, come avevano fatto lunedì gli Emirati. Da Teheran ha reagito il presidente Hassan Rohani. Con la rottura dei rapporti diplomatici l’Arabia saudita «non può coprire il suo crimine», ha detto riferendosi all’esecuzione di Nimr al Nimr. Ma la leadership iraniana sembra temere un nuovo isolamento e il governo ha fatto sapere che «userà moderazione, come sul dossier nucleare». E l’inviato Onu per la Siria Staffan De Mistura guarda a possibili contraccolpi a Damasco: da Riad – dice – ci sono garanzie che la crisi con l’Iran non fermerà il processo di pace.
Spera di evitare escalation anche lo stesso Bahrein nel giorno in cui tre suoi soldati sono stati uccisi al fronte in Yemen e un suo F-16 si è schiantato al confine fra Yemen e Arabia Saudita. E nella sera in cui i manifestanti sciiti tornano in strada ad assediare la capitale.