la Repubblica, 6 gennaio 2016
Se i graffitisti finiscono al museo che rivoluzionari sono? Il caso di Bologna
Bologna. I graffitisti in tribunale, le loro opere nel museo. Se la missione della street art è far esplodere il conflitto fra legalità e arte, quel che sta accadendo a Bologna sembrerebbe un trionfo. Forse è una crisi. Nelle scorse settimane, mentre Alicè, al secolo Alice Pasquini, writer di fama, veniva chiamata dal tribunale cittadino a rispondere di “imbrattamento” dei muri della città, una squadra di tecnici con attrezzature da restauratori di affreschi medievali stava girando le periferie per staccare dalle pareti di fabbriche abbandonate ed edifici fatiscenti i graffiti di artisti di strada nati nell’ambiente dei centri sociali, ormai divenuti celebri (come Blu o Ericailcane), con l’intenzione di esporli, fra alcuni mesi, in una mostra promossa da Genus Bononiae, potente istituzione culturale presieduta dall’ex rettore Fabio Roversi Monaco.
Storia già vista? Se i graffiti sul muro di Berlino sono finiti scalpellati a pezzettini nelle case dei turisti, le opere di Bansky vengono rimosse per essere stravendute (575 mila dollari per i suoi Kissing Coppers). A Bologna, almeno per ora, non si tratta di appropriazione mercantile, la giustificazione è più nobile: «salvare la street art», prelevandola dove il rimpasto urbano prima o poi li condannerà alla sparizione. Ma: è salvare o privatizzare? Anche su questo (e i curatori della mostra, Christian Omodeo e Luca Ciancabilla, esperti della materia, lo sanno bene) il dibattito internazionale s’infiamma: nata in strada, lì deve morire, dicono i puristi. Proprio Blu, un anno fa, cancellò il suo gigantesco murale in Cuvrystrasse a Berlino, quartiere ex-freak in via di imborghesimento, per il semplice motivo che «il contesto è cambiato ed era ora di cancellarlo».
A Bologna sono arrivati prima di lui, e senza chiedere permesso o anche solo un parere. Malumori sui social, accuse di appropriazione culturale indebita. Il caso Bologna è diventato un banco di prova per l’arte furtiva dell’affresco antagonista. A chi appartengono quelle opere? Chi ha o non ha il diritto di portarsele via? Il copyright tutela anche opere realizzate illegalmente? Ma soprattutto: la street art senza street è ancora art? Bansky toglie subito la paternità alle sue opere asportate e commercializzate (non che questo ne diminuisca il prezzo a base d’asta). La questione però è meno legale che culturale. L’autentica street art è sberleffo ai luoghi della cultura, è critica guerrigliera al paesaggio urbano degradato e mercificato. Tolti dal contesto site specific, trasferiti nel museo, i graffiti non sono più quel che erano: non più di quanto un fossile di ammonite sia ancora il cefalopode guizzante nei mari del Giurassico.
Al netto delle buone intenzioni, a Bologna sembra andare in scena la normalizzazione di un fenomeno artistico ribelle. Del resto, togliere i graffiti dalle strade è quel che chiedono a gran voce i buoni cittadini e i condòmini armati di solvente. Un drappello dei quali, in maggio, scese in strada a Milano per cancellare i murales di Pao e Linda, che a loro parere «deturpavano» un modesto parchetto di periferia. Che beffa, dovranno pagare il biglietto se vorranno andare a vedere nei musei quel che è sfuggito alla loro educata iconoclastia.
La normalizzazione museale, del resto, è il destino di tutte le avanguardie incendiarie. L’estrazione dal contesto è invece quello di tutta l’arte, di ogni epoca, prima o poi. Omodeo ribatte così su Artribune alle polemiche: «Ha senso esporre i marmi del Partenone al British Museum?». Senza accorgersi che la sua domanda non è affatto retorica. «I musei funzionano come macchine per trasformare in falsi le opere autentiche che vi sono ammesse», ha già risposto Jean Clair, guastafeste dell’arte contemporanea, in L’inverno della cultura. Dalla bianca lavatrice che è il white cube del museo qualsiasi opera nata per avere un senso e una funzione sociale esce candeggiata, sterilizzata. Salvata per i posteri, ma come fantasma di quel che era quand’era viva. Un oggetto orfano, sradicato, impoverito e poi ri-semantizzato dall’intervento dei curatori, che sono di fatto i nuovi “autori” dell’opera museificata. Sarà almeno opportuno che i visitatori della futura mostra vengano resi consapevoli che quelle che vedranno non sono fiere tigri della giungla, ma stanche tigri nella cattività di un circo, obbedienti alla frusta-catalogo del domatore. Del resto il sistema dell’arte, scrive l’iconologo Horst Bredekamp nel suo Immagini che ci guardano (Raffaello Cortina) non è che questo: un ansiolitico per sedare la paura dell’uomo nei confronti delle immagini selvagge.