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 2016  gennaio 06 Mercoledì calendario

È il secondo emendamento che rende forte la lobby delle armi

“Ogni volta che penso a quei venti bambini della scuola elementare Sandy Hook uccisi nel 2012 sono straziato». Barack Obama piange mentre parla alla nazione per affrontare la sua piaga più ignobile. Denuncia il fatto che «trentamila americani vengono uccisi ogni anno con armi da fuoco, non siamo l’unico Paese al mondo con degli individui violenti ma l’unico dove la violenza delle armi si scatena così spesso». Il presidente inizia il 2016 con un compito tragico, un dilemma politico e morale che ha promesso di affrontare. «Non ho più bisogno di farmi rieleggere». E quindi può parlare il linguaggio della verità. «La gente continua a morire, non abbiamo alibi per rimanere passivi». Sa di avere davanti una montagna di ostacoli, incluso il Secondo Emendamento: «Ho insegnato diritto costituzionale, conosco la legge, ma ci sono altri diritti fondamentali che abbiamo regolato, per esempio la libertà di parola non si estende al diritto di urlare al fuoco in un luogo pubblico affollato». Ma le misure che il presidente annuncia sono limitate.
Ci saranno controlli più severi di “background”, cioè sui precedenti penali o sulle malattie mentali di chi si presenta a fare acquisti in un’armeria. Ci sarà l’azione penale obbligatoria contro gli armaioli che aggirano il dovere dei controlli. È un giro di vite significativo eppure modesto, non ridurrà il numero di armi già in circolazione: più di una per ogni abitante degli Stati Uniti. Obama fa appello al buonsenso, alla ragione, sostiene che una maggioranza dei cittadini è d’accordo «inclusi tanti proprietari di armi che non hanno obiezioni sui controlli».
È vero che una parte d’America sta con lui, e a livello locale ha già regole più severe, soprattutto nelle città progressiste come New York o San Francisco. Ma il dilemma tragico che avvolge questo presidente, lo dimostrano i dati sulle vendite e le quotazioni di Borsa dei mercanti di morte come la Smith & Wesson. Ogni volta che Obama è intervenuto su questo tabù – anche solo con dei discorsi – una parte del paese si è precipitata a fare nuovi acquisti di armi, e la Borsa ha visto salire ancora le quotazioni dei fabbricanti.
Il potere del presidente è comunque minimo, in questo campo. Per varare delle limitazioni più drastiche ci vorrebbe un voto del Congresso. E questo Congresso a maggioranza repubblicana si rifiutò di farlo perfino subito dopo la strage della scuola Sandy Hook nel dicembre 2012, quando l’emozione per la morte di quei bambini era fresca.
I candidati repubblicani ancora di recente – dopo la sparatoria dei due terroristi islamisti a San Bernardino – hanno sostenuto che la miglior difesa contro i violenti è armarsi fino ai denti. Peraltro non è solo la destra a prendere ordini dalla lobby delle armi: fior di democratici subiscono lo stesso ricatto per paura di non essere rieletti.
Ancor più del Congresso, il potere normativo in questo campo sta nei singoli Stati: governati anch’essi a maggioranza dalla destra. Né esistono le condizioni per un’interpretazione restrittiva del Secondo Emendamento da parte della Corte suprema: la maggioranza dei giudici sono conservatori.
La lobby delle armi può continuare ad avvolgersi nella bandiera a stelle e strisce, appellandosi alla Costituzione. È un’impostura. Quel diritto costituzionale ha radici storiche non già nel Far West dei cowboy come crede qualche europeo, bensì nella memoria della guerra d’indipendenza, quando l’America doveva contare su milizie popolari per mobilitarsi contro l’esercito imperiale britannico. È una farsa orrenda, che quel precedente storico così remoto giustifichi un business delle armi di tutt’altra pericolosità, le cui vittime sono gli americani stessi.
Dietro la cultura delle armi c’è anche il feroce istinto del farsi giustizia da sé; indifferente al fatto che molte vittime degli spari muoiono per suicidio, incidenti, violenza domestica. Infine c’è una pervicace diffidenza verso lo Stato centrale: avere le armi per una fascia di opinione conservatrice è un simbolo di autonomia del cittadino, pronto a resistere contro l’intrusione del governo.
Qui la situazione di Obama si fa ancora più tragica: il colore della sua pelle è un ostacolo. La diffidenza storica della destra contro lo Stato centrale si è rafforzata a dismisura, da quando alla testa degli odiati “federali” c’è un presidente afroamericano. Un pezzo d’America razzista, che non ha mai digerito la società multietnica, percepisce quel presidente come un nemico che difende “gli altri”. Che sia proprio lui a parlare di armi li rende ancor più sospettosi, fino alla paranoia. «Non m’illudo di risolvere il problema durante il mio mandato»: in questa frase conclusiva c’è la frustrazione di Obama, è una constatazione amara su cui nessuno lo smentirà.