Corriere della Sera, 6 gennaio 2016
La corsa a comprarsi una squadra di Premier League
Le «Ciliegie» del pallone sono un frutto particolare. Risultano indigeste ai big della Premier, basta chiedere a José Mourinho e Louis Van Gaal stesi entrambi dal Bournemouth. Anche Claudio Ranieri, pur abituato alla tradizione culinaria testaccina, ha digerito male il pareggio di venerdì con cui il Leicester ha perso la vetta della classifica. I Cherries guidati dal giovane e promettente tecnico Eddie Howe(38 anni) alla prima storica presenza nel massimo campionato inglese hanno impressionato non solo tifosi e commentatori, ma anche gli analisti finanziari. Come può un club senza tradizione, paragonabile al Carpi o al Frosinone, e con uno stadio bonsai – appena 11 mila posti – interessare a un magnate russo e a un broker di Chicago?
Miracoli del calcio oltre la Manica, dove dai rubinetti delle tv sgorgano fiumi di denaro. I diritti si vendono a peso d’oro: per il triennio 2016-2019 i club incasseranno 6,9 miliardi di euro, il 71% in più del precedente accordo. E la cifra vale solo per il mercato locale. Con le dirette all’estero, infatti, i proventi sfioreranno quota 11 miliardi e secondo le previsioni cresceranno ancora. Numeri sufficienti a spiegare perché gente come Matt Hulsizer, fondatore dell’hedge fund Peak6 Investment abbia scelto di puntare sulla ruota di Bournemouth rilevando il 25% della società dall’imprenditore russo Maxim Denim. Qui arriverà il romanista Iturbe, girato in prestito. Va dove ti portano i soldi, funziona in Borsa e ora anche nella Premier. Campionato globale trasmesso in 155 paesi, dove i padroni sono sempre meno inglesi e gli orari delle partite fissati per inseguire i fusi orari dell’Asia, terra di conquista privilegiata. Biglietti più cari che nel resto d’Europa tanto da scatenare proteste ma stadi sempre pieni, con una media di 36.500 spettatori a partita. E pazienza se i nuovi nomi sono molto meno spettacolari degli Abramovich, dei Glazer e degli sceicchi Mansour – sono loro i precursori dell’«apertura» —, gli affari sono affari.
Blindatissime le grandi come Manchester United, Manchester City, Chelsea e Arsenal, l’interesse ora è nei club medio piccoli. Da poco il Crystal Palace ha aperto ai capitali americani: ceduto il 36% ai fondi di Josh Harris e David Blitzer, il duo che controlla anche i Philadelphia 76ers che giocano in Nba. Presto anche l’azionariato dell’Everton – che galleggia a metà classifica – potrebbe cambiare, anche stavolta la partita è tutta statunitense fra l’imprenditore tecnologico John Jay Moores e il finanziere Charles Noell, gli stessi che avevano trattato senza successo per il Swansea. Se l’affare andrà in porto otto squadre sulle venti della Premier avranno partecipazioni Usa, calcola il Financial Times. Società con interessi nel football americano, nel baseball e nell’hockey abituate a far quadrare i conti che però si scontrano con una profonda differenza culturale: la retrocessione nelle serie minori, opzione non prevista nello sport a stelle a strisce. Significa perdere i soldi delle tv, strada che in parecchi casi porta al fallimento.
Per questo Randy Lerner, nonostante il patrimonio personale stimato in 1,5 miliardi dollari, ha appeso da tempo il cartello vendesi alla porta del suo Aston Villa. È la dura legge del mercato, ma spiegarlo ai tifosi resta difficile. In Inghilterra o altrove.