Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  gennaio 06 Mercoledì calendario

I famigerati Barberini e la gloria di Roma. Avercene...

«Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini». Ciò che non fecero i barbari, lo fecero i Barberini. Quando a Roma parlava Pasquino, la più famosa «statua parlante» dell’Urbe (un cartello affisso di notte e letto dai romani al mattino), i Papi tremavano. Era la satira politica dell’epoca, feroce e sincera come la cucina locale. Toccò anche a Urbano VIII, al secolo Maffeo Vincenzo Barberini, sul Soglio dal 1623 al 1644, ritrovarsi sul banco degli imputati. Nel nome della gloria del Barocco lasciò che il Colosseo fosse utilizzato come una cava di marmo pregiato. E ordinò di staccare la trabeazione bronzea del pronao del Pantheon, rimasta intatta nei secoli, per assicurare materia prima a Gian Lorenzo Bernini impegnato nel maestoso Baldacchino di San Pietro, cosparso delle api che campeggiano sullo stemma Barberini.
«Nulla da dire su quella frase, non è contestabile. Ma vorrei ricordare che quei marmi e quel bronzo non finirono in una villetta privata di periferia, ma compongono ora i più grandi capolavori barocchi del mondo intero. Roma è la grande capitale culturale del Pianeta anche grazie all’idea della renovatio, all’idea di usare l’antico per dare forma al moderno barocco. Non per niente, simbolicamente, Roma fu il centro mondiale della produzione culturale per due volte: durante l’Impero e col Barocco».
Urbano Barberini Colonna di Sciarra Riario Sforza porta da solo gran parte dei cognomi principeschi più antichi di Roma, per una lunga serie di complessi intrecci familiari. Si chiama Urbano, come il nome scelto per il papato dal suo antenato Pontefice, così come suo nonno si chiamava Maffeo, nome battesimale del Papa. Urbano Barberini è attore, regista, animatore culturale, abituale partner di Franca Valeri in imprese teatrali, oggi è anche assessore alla Cultura del comune di Tivoli dopo aver combattuto, con i movimenti locali, una dura battaglia nel 2011 contro l’assurdo progetto di discarica a Corcolle, a ridosso di villa Adriana, fortemente sostenuto ai tempi dall’ex presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, e dall’ex commissario straordinario ai rifiuti, il prefetto Giuseppe Pecoraro.
«Sono felice dei risultati per il Colosseo. Quella famosa frase? Lo ripeto, nulla da obiettare. Ma i Borghese, gli Aldobrandini, i Barberini e i Colonna sono le famiglie principesche e papali che hanno assicurato a Roma i capolavori che conosciamo. Urbano VIII, appena eletto, nella prima udienza ricevette il cavalier Gian Lorenzo Bernini, un sommo artista. E così trentamila api barberiniane sono sparse per Roma, dalla fontana della Barcaccia del Bernini in poi».
Dunque, nessuna accusa all’antenato? «Io penso che si debba riconoscere il giusto ruolo a chi ha contribuito a scrivere straordinarie pagine della storia dell’arte mondiale. Tra i Barberini protettori delle arti, non c’era solo il Papa Urbano VIII. C’erano anche i cardinali Francesco e Antonio, entrambi entusiasti collezionisti».
In effetti, gli inventari di Antonio Barberini rubricano, per esempio, «Il sonatore di liuto» e la «Santa Caterina» del Caravaggio. In quanto al famoso motto che accusava i Barberini, sembra fosse uscito dalla penna di Carlo Castelli, all’epoca canonico di Santa Maria in Cosmedin e ambasciatore del Duca di Mantova presso la Santa Sede (come rivelò Lauretta Colonnelli sul Corriere della Sera nel 2012 grazie a una scoperta dello storico Sandro Barbagallo nella Biblioteca Vaticana). Urbano VIII annotò perfidamente nel diario che il maldicente «morse d’infermità e nel letto chiese perdono a Papa Urbano Ottavo».
Oggi, Urbano Barberini (da poco tornato in possesso dell’antica proprietà familiare di Ponte Lupo, a due passi dalle cascate di Tivoli, la parte più monumentale dell’acquedotto costruito nel 144 avanti Cristo per l’Acqua Marcia) è preoccupato per le sorti dell’Agro Romano: «C’è una magnifica fetta di campagna scampata alle devastazioni urbanistiche, tra la Tiburtina e la Prenestina, tra le aree più preziose del mondo. Andrebbe curata e tutelata. Invece è terra devastata dai roghi tossici, dalla prostituzione, dall’abbandono...».
Passano i secoli, e a Roma si parla ancora di un Barberini.