Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2016
Per salvare le sue banche il Giappone ha speso 100 miliardi in vent’anni
Ritardi colpevoli e minimizzazioni, poi manica larga e interventismo diffuso, fino alla “moral suasion” per favorire aggregazioni: di fronte alle difficoltà del settore bancario, le autorità giapponesi sono passate per diverse fasi che sono diventate un punto di riferimento, negativo o positivo, molto studiato altrove.
Se le banche nipponiche riuscirono a superare la crisi finanziaria globale del 2008 assai meglio di altre, in fondo, fu per la loro prudenza generata da una precedente crisi sistemica scoppiata alla fine degli anni ’90.
L’ultimo vero salvataggio pubblico fu quello di Resona Holdings nel 2003, ma i dati della Deposit Insurance Corp of Japan calcolano che per sostenere il suo sistema finanziario Tokyo ha impegnato – dall’implosione del 1998 – ben 12.800 miliardi di yen di fondi pubblici (quasi 100 miliardi di euro). Un report per il Congresso Usa ai tempi del “bailout” americano da 700 miliardi di dollari calcolò che Tokyo, dopotutto, si era impegnata per 495 miliardi di dollari in salvataggi.
La narrativa corrente è questa: dopo lo scoppio della bolla immobiliare e borsistica agli inizi degli anni ‘90, le autorita’ giapponesi preferirono far finta di nulla o addirittura incoraggiare le banche a sottostimare i loro problemi. La prima crisi avvenne nel 1995-96 nel settore delle società specializzate in crediti immobiliari (jusen): qui avvenne la prima iniezione di fondi pubblici. Ma dal 1997 la crisi scoppiò a livello sistemico, con fallimenti di broker, nazionalizzazioni (come quelle di Long-Term Credit Bank of Japan e Nippon Credit Bank), iniezioni di capitali e megafusioni pilotate da cui nacquero i primi tre colossi bancari (Mizuho, Mitsubishi UFJ e Sumitomo Mitsui).
Sotto l’esecutivo del premier Koizumi l’annoso problema dei crediti inesigibili fu affrontato finalmente in modo drastico, il che provocò la svolta. Tanto che la crisi Lehman Brothers divenne persino una opportunità di espansione all’estero (con le operazioni Mitsubishi Ufj-Morgan Stanley e Nomura-asset europei e asiatici di Lehman).
Oggi le principali preoccupazioni governative riguardano le banche regionali: troppe e troppo frammentate, attive in regioni in rapido declino demografico. Le sollecitazioni ad aggregarsi cominciano a fare breccia, da ultimo con l’annuncio della prossima fusione di Bank of Yokohama con Higahi-Nippon Bank che creerà la principale banca regionale del Sol levante. La stessa recente privatizzazione di Japan Post – che fa intravedere un maggiore attivismo del gruppo postale sul fronte dei servizi bancari – per vari analisti dovrebbe spronare una ulteriore fase di consolidamento a scanso di singole crisi. Ad ogni modo, sul fronte dei salvataggi pubblici, il governo giapponese ha dimostrato spesso di essere di manica davvero larga, senza soverchie preoccupazioni di alterare la concorrenza: il caso classico èquello degli interventi in favore di Japan Airlines, contestati invano dalla rivale All Nippon. Il più grande salvataggio con denari del contribuente è stato quello della utility Tepco nel post-Fukushima, ma la mano pubblica si è rivelata benevola e interventista ad ampio raggio e con diversi strumenti, come dimostrano i ripetuti sostegni all’industria dell’elettronica effettuati attraverso fondi specializzati parapubblici. Interventi che continuano, visto che il fondo Innovation Network Corporation of Japan appare pronto a salvare la divisione display della Sharp fondendola con Japan Display (società di cui è il maggior azionista che ha salvato altre attività tecno-industriali).