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 2016  gennaio 05 Martedì calendario

Analisi dei divi del cinema italiano, maschi fragili e instabili

Cosa unisce le star del muto Bartolomeo Pagano ed Emilio Ghione alle celebrities contemporanee come Carlo Verdone e Riccardo Scamarcio? Semplice: l’essere “divi, italiani, maschi”, tre aggettivi che due studiose angloamericane, Jacqueline Reich e Catherine O’Rawe, utilizzano come filo rosso nel libro Divi (Donzelli editore) per analizzare il cinema italiano dalla sua nascita a oggi, colmando un vuoto (visto che le grandi dive, al contrario, sono state spesso oggetto di saggi e biografie).
Le due autrici provano a ricostruire l’essenza della mascolinità divistica italiana e la individuano soprattutto in una contraddizione: i divi italiani, che per certi versi (come vorrebbe l’etimologia) appartengono a una dimensione ultraterrena, lontana dalla vita quotidiana del comune pubblico mortale, sono in realtà fragili e instabili nel loro tentativo di adattarsi ai cambiamenti sociali e in particolare alla minaccia della libertà femminile, specie dal dopoguerra in poi. Questo li rende tuttavia, a differenza delle algide star hollywoodiane, più vicini al loro pubblico, grazie al quale esistono e trovano legittimazione, specie nell’epoca dei social media.
Le prime star maschili nascono con il cinema muto, dove i divi, al contrario delle loro controparti femminili eteree e divine, sono profondamente terreni, vista anche la loro associazione a generi come il comico e le serie poliziesche. Durante il fascismo, accanto ai film di propaganda e alla virilità mussoliniana coesiste un cinema influenzato dal teatro di varietà (basti pensare alle commedie di Mario Mattoli). Oltre ai divi del neorealismo, il dopoguerra conosce generi meno noti, come il melodramma, al cui centro c’è la figura del reduce e lo sforzo per ricostruire una virilità egemonica dopo l’umiliazione dell’Italia.
E poi si arriva alla commedia all’italiana dove i maschi – Gassman, Sordi, Tognazzi e Manfredi – sono goffi ed egocentrici. Un genere che per vent’anni radiografa le bassezze dell’italiano medio e che arriva fino ad oggi (basti pensare a Checco Zalone e Christian De Sica). Negli ultimi tre decenni del secolo invece, anche a causa della mancanza di uno studio system come in America, le star provengono dal cinema d’autore, e da una collaborazione tra registi e divi: Fellini e Mastroianni, Gassman con Risi e Monicelli, Wertmuller e Giannini, fino a Sorrentino e Servillo.
Infine negli ultimi anni dominano le interpretazioni collettive, più attori famosi affiancati nello stesso film o fiction – vedi La Piovra, Montalbano, Romanzo Criminale e i suoi attori “pasoliniani”, 1992 –, e anche in questo caso in scena va una virilità sofferta, mentre i divi diventano sempre più star, prodotto di consumo distribuito sul mercato (anche se molti di essi si caratterizzano proprio per il rifiuto della celebrità, vedi Elio Germano e l’ultimo Scamarcio).
Dopo uno sguardo d’insieme, è la volta della carrellata dei singoli divi, che parte dall’eroico Maciste (Emilio Pagano e il “cinema dei forzuti”) e dal criminale di successo Za la Mort (Bartolomeo Ghione), star del cinema muto. Si passa poi a raccontare la parabola di Vittorio De Sica – “esempio perfetto del rapporto tra star, persona e stile performativo”. Un capitolo è dedicato al divo autarchico Amedeo Nazzari, “personificazione ideale delle difficoltà e ambiguità del dopoguerra, in cui la mascolinità eroica ha ceduto il passo all’amarezza e al sacrificio inutile” e un altro a Raf Vallone, un “Nazzari di sinistra”, dalla virilità stoica, severa, tormentata nel suo rapporto con il femminile.
È poi la volta di Vittorio Gassman, “attore virtuoso in cui i ruoli combinano spesso cinismo e pathos in maniera istrionica, capace di passare dall’italiano medio opportunista all’ambizioso ideale maschile”, mentre non manca, ovviamente, un capitolo su Alberto Sordi, rappresentante perfetto del personaggio maschile della commedia all’italiana, un mix di “sensibilità tragica e inconfondibile romanità”, che dà voce alle contraddizioni sociali del dopoguerra. Marcello Mastroianni invece è il latin lover italiano del boom anni Sessanta, ma anche il rappresentante della figura dell’inetto, fallito impantanato nella mediocrità borghese e anche lui in lotta con la crescente indipendenza femminile. Gian Maria Volonté è l’emblema della star politicamente impegnata, anche se la sua personalità divistica è “proteiforme e mutevole”, mentre Roberto Benigni e Carlo Verdone esprimono un umorismo che mette “in tensione regionalismo e nazionalismo” e in cui è protagonista una mascolinità sempre incalzata dai cambiamenti sociali, sessuali e politici.
In particolare, Verdone è “l’incarnazione del maschio italiano egocentrico, nevrotico, ipocondriaco”. Gli ultimi due capitoli sono infine dedicati a Toni Servillo, “maschera ricorrente del nuovo cinema di qualità”, in cui “l’immobilità fisica si alterna a un’improvvisa fluidità”, e alla versatilità di Riccardo Scamarcio, capace di destrutturare la fama di belloccio e di rubacuori per approdare a una figura di divo uomo di cultura e attore impegnato.