il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2016
Chi è Luca Medici da Capurso, l’uomo dei 22 milioni di euro in tre giorni
Nei panni di Vendola, a Telenorba, prima dei milioni di euro, prima di tutto: “Al termine di un comizio mi si avvicina un ragazzino timido e nudo a Santa Maria di Leuca. ‘Che ne sarà di me? – mi chiede – saprò difendermi dalle lunghe spire del potere o dovrò necessariamente destinare il mio Tfr ai fondi di previdenza complementare così come previsto dalla finanziaria truffa del 2006?’ Al che l’ho guardato e gli ho detto: ‘Bimbo, ma tu da me che cazzo vuoi?’”. Se potesse, Luca Medici da Capurso domanderebbe lo stesso a chi si affanna a leggerne il fenomeno nuotando nella politica, nella sociologia [leggi anche Il Fatto del giorno].
E in quella battuta – sempre sua, sempre di ieri – in cui l’odierna e assai pensosa tavola rotonda intitolata: “Ci meritiamo Checco Zalone?” si riduce a sintesi fulminante: “Come possiamo ridere? Sarebbe subdolo”. Ai tempi in cui Luca Medici studiava la mimica del parroco di Capurso, Don Franco, non c’era ancora un palco su cui confrontarsi né una lettura più o meno divina di cui dar conto.
Zalone non esisteva. E la madonna laica a cui oggi si inchinano ministri puliti e buffoni di corte era soltanto un bambino di sei anni che imitava il Celentano di 24.000 baci davanti allo specchio indossando l’abito della prima comunione. Vennero in ordine sparso la scuola media: “In un semiconvitto per soli maschi, tristissimo. I miei amici giocavano a pallone, io rimanevo tra i banchi fino alle diciotto”. Le superiori a Conversano, perché Zia Lina, vicequestore con i gradi anche in famiglia, del capoluogo non voleva saperne: “A Bari sta la droga”.
Il sabato pomeriggio sul palco del Liceo per lo show comico tra coetanei. Le improvvisazioni adolescenziali nelle piazzole dell’autogrill per conquistare Bianca Guaccero e sublimare la gita scolastica: “Usai un manico di scopa al posto del microfono e mi lanciai in un’imitazione, lei rimase sulle sue e non me la diede né allora né dopo”. La laurea in Giurisprudenza a Bari: “L’unica città in cui ci sono più avvocati che cittadini”. Il padre, il signor Medici, vendeva medicine di giorno e di sera suonava per veglioni. Luca, che lo accompagnava, lesse gli spartiti, imbracciò una chitarra, imparò a strimpellare e in poco tempo si ritrovò nello stesso ruolo, per 50 euro a sera, a recitare al piano bar, nelle sagre, nelle feste di paese: “In cui mi toccava anche vestirmi da Babbo Natale”.
Ora il Natale è lui. Il parente meno cattivo di quelli immaginati da Monicelli: “Ma cosa stai mangiando? – dice una grande Cinzia Leone alla figlia trippona intenta a divorare un dolce di nascosto nel nevoso inverno di Sulmona – -ma lo sai quante calorie ha quella roba lì? Smettila che mi vieni su con un culo che fa provincia”. L’ospite inatteso che soltanto dodici anni fa, dopo aver osservato e in parte esportato la parabola scorretta di Emilio Solfrizzi nel Toti e Tata irradiato dall’etere locale, tornando dall’ennesima trasferta di Zelig, nel caldo del luglio pugliese, veniva gelato dal padre alla stazione di Bari: “Mò mi hai rotto i coglioni, non c’ho più soldi, sto andando sotto in banca, falla finita”. Poi, ragionò Checco stesso in una difficile autoesegesi del trionfo, si trattò di “culo” e di “occasioni”.
Quella della televisione lo fece conoscere e salvò i risparmi paterni: “Quando feci sapere che non mi sarei potuto più permettere di viaggiare da Bari a Milano mi staccarono un assegno di 5.000 euro, chi li aveva mai visti prima?”. In tv poteva irridere Jovanotti che reagì con ironia allo scempio di Baciami ancora: “Se ci tieni a noi due/ se ci tieni alla storia/ se non vuoi che il rapporto si rompa/ fammi una pompaaa”, prendere in giro Saviano che non la prese forse altrettanto bene, agitare la rabbiosa reazione a mezzo raccomandata di qualche associazione per il pubblico decoro. Al cinema cambiarono piattaforma e regole di ingaggio. Per sancire il matrimonio, camminarono per i viali di Cortina il produttore Pietro Valsecchi: “Noi vestiti come a primavera, assiderati, a meno quattordici gradi”, il regista Gennaro Nunziante e Checco stesso: “Da quella passeggiata nacque il primo film”.
Cado dalle nubi, quello in cui gli uomini sessuali “sono genti tali e quali a noi/ noi normali” e poi, a cascata – una cascata meno rapida ma più impetuosa di certi prodotti usa e getta dei ’70 girati in tre settimane dall’ottimo incasso e dall’eccellente rapporto qualità-prezzo – gli altri tre. Tre discorsi in fine anno in sei stagioni. Un film ogni due. Perché – dice Checco a cui manca solo l’incoronazione di Guy Debord e che armando lo spettacolo può permettersi di minimizzare – non è che l’elaborazione sia propria spontanea. Sofferta, piuttosto: “Per le mie cagate, per scrivere tre minuti di canzone, impiego mesi.
Non è che mi venga spontaneo”. Spontanea è la reazione. La coda nei piccoli cinema di montagna. Il pallottoliere in continuo movimento. La risata a cui per cercare termini di paragone si sono accostate le figurine del passato. Totò, Chiari, Troisi, Sordi di fronte al quale – diceva un paio d’anni fa – “Il comico Checco Zalone è una caccola” pur ammettendo se non una filiazione, un punto di incontro tra le epoche: “Ai suoi personaggi riesci a voler bene anche nel cinismo e nella bassezza. Li scopri umani. Deboli. Volgari. Esattamente come te. Vorrei riuscire a fare lo stesso”. Ora, dicono gli scettici, nonostante i risultati dei primi quattro giorni di Quo Vado? (quasi 25 milioni di euro) siano in scia al Pil della Slovacchia, Checco è a metà strada.
Con la sua pelata, i denti staccati, l’imperfezione come valore, l’immagine come nemico, dovrebbe scegliere cosa fare da grande. Forse il film d’autore, il salto “evolutivo” che invano pretendono insoddisfatti, polemici e invidiosi, il cinema d’autore che il suo amato Paolo Villaggio radeva al suolo nella parodia della proiezione colta dei classici per i carissimi inferiori, gli impiegati, il mondo di sotto, non arriverà mai. Il Cozzalone, il tamarro di umili natali che volontariamente non si emanciperà da cafonaggini e coatterie, ma anzi continuerà a metterle in scena in un continuo specchio con il presente, è un attore di oggi contento di rappresentare quel che rappresenta. Un regista bravo, sveglio, acuto, gli propose una parte. Lui rifiutò: “Diventerò mai un attore al servizio di un regista drammatico che magari sogna di cambiarmi? Me l’ha chiesto Virzì, è stato gentile, ma ho detto no. Se ci penso mi sento male. Se ci rifletto sul serio, cambio mestiere domani”.