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 2016  gennaio 05 Martedì calendario

Enzo Ferrari, ritratto di un genio italiano (un po’ dimenticato)

La Ferrari, intesa come fabbrica di automobili speciali note in tutto il mondo, è stata quotata in Borsa prima negli Usa e ora anche in Italia. E vedremo se otterrà gli stessi successi che i suoi bolidi rossi hanno avuto in pista. Tanti auguri a Marchionne e compagnia. Ma a noi sta a cuore ricordare un uomo un po’ dimenticato, ingiustamente, colui che ha inventato le formidabili vetture da corsa, partendo non da zero, ma da sotto zero, ossia Enzo Ferrari, l’ingegnere che è diventato tale sul campo e non nelle aule dell’università, per meriti concreti e non accademici. Un uomo dotato di un talento strabiliante in ambito meccanico e di una volontà d’acciaio, che gli hanno consentito di compiere un miracolo unico: le sue quattroruote, oltre a essere mezzi di trasporto tra i più efficienti e ammirati, hanno regalato all’Italia una reputazione internazionale che nessun altro prodotto nostrano, neppure quelli della moda, ha saputo fornire alla nostra patria vituperata.
Il marchio Ferrari è il più importante del cosiddetto made in Italy. Su questo sono tutti d’accordo. Le macchine che lo recano fanno sognare milioni di persone che identificano in esse l’emblema della perfezione, della velocità, del fascino metallizzato. Nonostante ciò, l’ideatore di simili gioielli non viene sufficientemente celebrato; i tifosi dell’automobilismo ne conoscono il nome e forse le opere, ma ne ignorano la tribolata vita, le fatiche sopportate, le delusioni digerite che lo hanno fortificato al punto da fare di lui un genio.
Fosse nato a New York o in una città della Germania o dell’Inghilterra, Enzo sarebbe stato gratificato con l’erezione di un monumento, e gli studenti di quei Paesi sarebbero ora costretti a impararne a memoria il profilo caratteriale e tecnico. Invece è venuto alla luce a Modena nel 1898 e a occhio e croce mi sembra destinato all’oblio. In questi giorni di esaltazione finanziaria, financo eccessiva, cui ha contribuito l’instancabile parlatore di Firenze (il premier Matteo Renzi) si è citata ogni tre minuti la Ferrari e non si è mai accennato a chi l’ha concepita e realizzata: l’ingegner Enzo, figlio di un meccanico intraprendente (30 dipendenti e morto giovane) che lo ha lasciato prematuramente orfano.
Il ragazzo, appena diciottenne, fu obbligato ad abbandonare gli studi e a rimboccarsi le maniche: tornitore. Poiché era sveglio, fece immediatamente carriera: fu promosso istruttore. Scoppia la Grande guerra e gli tocca partire per il fronte, da cui torna malato, come parecchi suoi commilitoni. Una volta guarito, nel 1919 viene assunto quale collaudatore e pilota alla Cmn. Inizia l’arrampicata irresistibile. Giunge quarto nella Targa Florio. L’anno seguente, passato all’Alfa Romeo, è secondo nella stessa gara. Per quattro lustri l’Alfa sarà casa sua, e qui affina la propria professionalità. Nel 1931 si piazza secondo nella Parma-Berceto dietro a Tazio Nuvolari, l’imbattibile. Altra guerra mondiale, e si ferma tutto. Nel 1943 egli, a motori spenti, costruisce a Maranello una fabbrica di macchine utensili, tanto per tenersi in forma. E nel 1947 prova su strada la prima auto tutta sua. Da qui in poi, è una catena di trionfi. Lui è prossimo a compiere mezzo secolo. Il suo medagliere è tra i più ricchi di ogni tempo. Le vetture di Maranello conquistano i mercati ad onta dei prezzi ovviamente esorbitanti. La Ferrari in pratica è un mito circolante. Non c’è automobilista che non aspiri a possederne una.
Quando nella seconda metà degli anni Ottanta il Gran premio automobilistico ruppe la cortina di ferro e si svolse in Ungheria (io c’ero), in una piazza di Budapest furono parcheggiate un paio di Ferrari per reclamizzare la competizione: nel giro di pochi minuti intorno a esse si radunarono tremila persone desiderose di vederle da vicino e magari di toccarle. Questo per dire quanta attrazione hanno sempre esercitato queste macchine. Scusate se mi cito. Nel 1996, Luca Cordero di Montezemolo, allora già presidente Ferrari, mi fece trovare sotto la sede del Giornale una cosiddetta Berlinetta (che berlina non era): «Tienila qualche giorno», mi disse. Era sabato, e la sera andai a Bergamo con quel «siluro» che guidavo male, essendo abituato a ben altre cilindrate.
Il giorno appresso, domenica, non avendo una seconda auto a disposizione, andai allo stadio per assistere alla partita dell’Atalanta con il macchinone. Ebbene fui circondato da una folla incuriosita dal nuovo modello. Saranno state tre o quattrocento persone, tutte a bocca aperta. Imbarazzato, me la svignai, rientrando a casa. Chiamai un taxi e festa finita. Ecco cos’è il Cavallino rampante, un oggetto magico che eccita chiunque, anche chi è senza patente. E noi snobbiamo chi l’ha inventato? O siamo ingrati o siamo stupidi.
Ultima annotazione. L’ingegner Enzo non era un uomo romantico, gli piaceva fare, amava il lavoro e non cedeva alle difficoltà. Le ha superate tutte, tranne la smemoratezza degli italiani.