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 2016  gennaio 05 Martedì calendario

Quei bravi ragazzi asiatici che mettono in crisi gli americani bianchi. Una guerra tra élites scolastiche che talvolta finisce con un suicidio

Dopo alcuni suicidi di studenti nel New Jersey e a Palo Alto in California, l’America si accorge di essere immersa in un nuovo conflitto etnico: i giovani americani di origine asiatica (cinese, coreana e indiana) sono estremamente più bravi a scuola, impongono con le loro famiglie programmi sempre più selettivi e un ritmo che gli americani bianchi non riescono a tenere. Sempre più spesso, un adolescente americano fa crac e si uccide. Alcune scuole medie e high school alzano il livello in matematica, fisica e chimica. Altre, dove gli asiatici sono in minoranza, resistono con assemblee che chiedono una dimensione più umana, il tempo per lo sport, la musica, gli hobby e l’amore.
È un problema che non nasce oggi, ma che soltanto adesso è diventato cruciale: gli asiatici americani sono il quattro per cento della popolazione totale, ma occupano più del venti per cento dei posti in tutte le graduatorie per le borse di studio e le ammissioni nei college. Come avviene sempre in America quando sorge un conflitto riconducibile alle etnie, molti si sono seriamente posti la domanda se gli asiatici siano una razza più dotata per genetica. E si è visto che no, il Dna non c’entra. I ragazzi e le ragazze di famiglia coreana, indiana e cinese crescono però in un ambiente severo, con genitori ossessionati dall’idea che i loro figli non riescano a cogliere i frutti del sistema scolastico che funziona ormai anche se non ovunque come una macchina da guerra.
Una delle scuole in cui la discussione è stata più tesa è la West Windsor Plainsboro, istituto del New Jersey con standard altissimi e dove gli americani «bianchi» in affanno e angoscia cercano di arginare le richieste crescenti degli asiatici di cui non sanno tenere il passo.Il risultato è stato sintetizzato in una dichiarazione che suona così: questa è una scuola di eccellenza nel distretto scolastico cui appartiene. Gli alunni possono chiedere tutto l’aiuto, le ripetizioni, il sostegno morale e psicologico di cui hanno bisogno, ma non è obbligatorio studiare qui. Ci sono molte altre scuole più rilassanti e meno competitive. Chi non ce la fa qui, vada altrove.
È necessario un chiarimento sul sistema. Lo scopo di ogni carriera studentesca, dalla scuola materna «kindergarten», alla fine della scuola superiore, è ottenere l’ingresso in una università prestigiosa per entrare nelle liste dei giovani desiderati dalle aziende. I genitori americani, ancor prima che il figlio nasca, accantonano mese per mese le somme che dovranno pagare per la sua «education», l’istruzione. Ci sono oggi moltissime università pubbliche a costo quasi zero, ma che richiedono nelle loro application (domande di ammissione) l’intero curriculum dall’età di quattro anni in poi, oltre a notizie sulla vita privata, i gusti, gli sport, gli hobby, le attività sociali e di volontariato. Se uno studente parte fin da bambino con una media alta e la mantiene, non solo l’università sarà sua, ma anche i migliori posti privati e pubblici.
L’emergere prepotente di una élite asiatica preoccupa moltissimo gli afroamericani che già si sentono in fondo alla graduatoria, ma la crisi di nervi colpisce gli americani bianchi i cui figli perdono tempo con telefonini e Play Station, si soffocano di messaggi via Instagram e video, fanno sport e cercano a scuola di combinare il meno possibile. E quando proprio non ce la fanno più, si suicidano: più cresce la domanda di scuole selettive come le vorrebbero gli asiatici (chimica, biologia, fisica e algebra a livello universitario) più cresce l’ansia e crolla l’autostima.
Gli studenti di famiglia indiana amici dei miei figli dormono quattro ore per notte e vivono sotto un controllo totale dei genitori. Alcune ragazze chiedono alle madri di combinare per loro un matrimonio socialmente giusto perché non hanno tempo da perdere con flirt, amori e disamori. La vita ruota intorno al «grade», il voto. Il voto più alto è una «A+» oppure cento centesimi. Quando uno studente porta una «A» senza la «+» in una casa indiana o coreana, scoppia una tragedia. Una «B», che è un ottimo voto, provoca devastazioni. Non parliamo di voti peggiori, impensabili.
I coreani si sono molto risentiti per la piega razziale che ha preso lo scontro perché non vogliono essere considerati delle diversità, sia pure eccellenti, ma persone semplicemente migliori degli americani bianchi. Una dottoressa di famiglia coreana scrive al New York Times che i suoi genitori hanno passato per anni giorni e notti ad aiutarla, a studiare con lei, a imparare le risposte che non conoscevano e sostenerla come mai saprebbero fare gli americani bianchi. Se non è un conflitto razziale, poco ci manca perché è uno scontro culturale e anche umano, affettivo psicologico. L’America è chiamata ancora una volta a domandarsi come vorrà selezionare la sua classe dirigente ed è stordita dai problemi più gravi come il terrorismo: non è ancora in grado rispondere. Le serie televisive si sono intanto adeguate dando vita a personaggi asiatici di successo: professori e psichiatri, sceriffi e giudici, scarsissimi i cattivi con gli occhi a mandorla.