la Repubblica, 5 gennaio 2016
Gianni Clerici racconta Frank Sedgman, il tennista montanaro che sconfisse gli Usa
«Ma allora ci sei riuscito! Hai imparato il grip!», sul bordo di uno dei campi del grande Kooyong, il Club di Melbourne, così esclamava un bel signore dai capelli bianchi, poggiato alla transenna che divide il court dal corridoio di passaggio. Il suo compagno ripeteva il mio gesto come farebbe Teo Teocoli nell’imitazione di un tennista. Aveva, sicuramente, un aspetto ironico, il mimo del vecchio Pancho Segura, uno dei primi bimani ad affermarsi, addirittura nella troupe Kramer, quando la bi-manualità ancora costituiva una stravaganza, non la regola di oggi.«E bravo Gionni» ripeteva l’altro spettatore, accarezzando l’aria con la mano tesa, nell’imitazione del mio povero gesto. «Ce l’hai fatta. Se vuoi, al prossimo campionato mondiale over 80, tra un paio d’anni, giochiamo il doppio insieme». Rimasi un istante incredulo. «15-30»? mi interrogò il mio amico avversario, Stefano Semeraro, bravissimo giornalista. «Credo» risposi. «Ma hai sentito cosa mi ha detto Frank Sedgman? Che giocherebbe i Veterani insieme a me, ora che ho imparato il diritto».«Non è mai troppo tardi» rise Stefano. «Ma me lo fa, Sedgman, un autografo?». Mi ritornava alla mente la prima volta che avevo visto Frank Sedgman. In Costa Azzurra, nel 1952.Eravamo in campo, ad allenarci, e Frank era apparso d’un tratto ad un balcone di una stanza del Carlton, il Grand Hotel famoso tra i tennisti per aver ospitato, sui suoi campi, il così chiamato Match del Secolo, tra la somma Suzanne Lenglen e la sua rivale Helen Wills, nel 1926. Eravamo lì per giocare il nostro torneo, e aspettavamo giusto l’arrivo di quel nuovo fenomeno australiano, del quale avevo soltanto letto, sentito parlare, ma mai visto. In pigiama com’era, aveva dato un’occhiata ai campi che non conosceva, e poi si era piegato in una flessione, un’altra, un’altra ancora, sinchè non era scomparso, dopo una decina di minuti, per apparire dopo mezz’ora su uno dei campi, chiedendoci gentilmente se potesse utilizzarlo: per correre lungo le righe e, dopo venti minuti di ginnastica, informarsi dove fosse la spiaggia lungo la passeggiata a mare, la Croisette, e scomparire sempre di corsa. A quei tempi non facevamo ginnastica, se non per sgranchirci, il mattino, e il nostro allenamento era tutto concentrato sui palleggi. Ci lasciò perplessi ma affascinati l’allenamento di quel tipo che vedemmo poi con la racchetta in mano, per farci capire come avesse già battuto gente come il connazionale Bromwich, l’americano Seixas e addirittura Drobny. Dopo qualche settimana mi sarebbe accaduto di ritrovarmi contro di lui in un secondo turno agli Internazionali d’Italia, destinato da Carlo Della Vida sul numero 6, uno degli ultimi due situati nell’ovale del Foro Italico, uno dei due campi minori dei sei contigui, per non parlare del Centrale.Per qualche misteriosa ragione, giocavo al meglio delle mie capacità, quel pomeriggio, e la mia abituale tattica di attaccante, negativa sui lenti campi rossi, pareva un duplicato di quella di Sedgman, che avevo preso a chiamare Frank. Avvenne così che, game dopo game, seguendo i servizi, mi ritrovassi avanti 6 a 5 e, con l’aiuto degli Dei, a set point, sul 30-40 avverso. Non sono mai riuscito a dimenticare quell’istante, come non si dimentica una figuraccia, una bocciatura a scuola, un infortunio sentimentale. Col mio diritto misi la risposta quasi sotto la rete e, da quel trauma, iniziò un’altra partita e mi ritrovai, alla fine, di fronte agli spalti ormai vuoti di spettatori, e con soli tre games raccattati nel secondo e nel terzo set. Dopo quell’avventurato primo turno Sedgman avrebbe dominato il torneo battendo in finale Drobny, e sarebbe presto divenuto uno dei miei personaggi preferiti quando presi ad osservare i rossi palcoscenici dalle tribune, invece di calpestarli. Quel 1952, quell’amicizia, erano succedute a successi da me letti sui giornali, poiché già nel 1949 quel fenomeno era entrato tra i primi dieci del mondo.Nato montanaro, giusto sul Mont Albert, nel Victoria, figlio di due tennisti della domenica, era stato adottato da Harry Hopman, giornalista del Sydney Herald ma soprattutto coach. Il primo a dedicare maggiore attenzione alla preparazione atletica che a quella gestuale. Frank si era anche valso di un sotterfugio, che gli aveva permesso di non divenire professionista in tempi in cui era severamente proibito ottenere aiuti economici, nemici del dilettantismo olimpico. Le maggiori aziende di prodotti sportivi australiani, infatti, offrivano stipendi di comodo ai migliori tennisti, privilegiati dunque nei confronti degli altri che non fossero aristocratici o alto borghesi, o addirittura stipendiati dalle Federazioni, come avvenne ai Moschettieri Francesi. Confortato dunque da un superiore allenamento atletico – Hopman fu il primo ad uscire dalle palestre e a correre sulle spiagge – e dalla tranquillità economica, Sedgman fece in modo da rovesciare una superiorità sin lì detenuta dagli americani, che avevano vinto, nell’immediato dopoguerra, 4 consecutive finali di Davis, lasciando agli aussies soltanto 2 match con Sedgman e il suo coetaneo Mc Gregor, gli australiani strapparono la Coppa nel 1950, e la tennero non solo sino a quando Frank divenne, nel 1953, professionista, ma addirittura, sempre capitanati da Hopman, la vinsero 14 volte tra il 1950 e il 1967. Si può scrivere che, partendo dall’affermazione di Sedgman, gli australiani realizzarono due decadi di superiorità mondiale, come nella storia del tennis non avvenne nemmeno agli Stati Uniti. Per tornare al mio avversario di un’ora che non dimentico, e spero venga tollerata dal lettore aficionado, nel triennio 1950-1-2, Frank vinse, su 36 titoli del Grand Slam, 19, in 4 finali di singolo, 8 di doppio, 7 di misto, mostrando quindi una qualità atletica superiore a quella di un fenomeno odierno quale Djokovic. Nel 1952 di cui parlavo, raggiunse 11 finali Slam a disposizione su 12, nelle tre specialità del giuoco, e vinse in singolo il torneo più ambito, Wimbledon. Nel ‘51 gli era riuscito il solo Grand Slam realizzato in doppio, insieme a Mc Gregor e nel ‘52 la tripletta di singolo- doppio e misto a Wimbledon. Per chi non sia del tutto stufo di questo trionfo statistico, verificato dallo specialista Luca Marianantoni, ricordo ancora che, passato professionista nella Troupe di Kramer, Frank fu il primo a superare i centomila dollari di premio e la sua straordinaria qualità atletica gli permise di rimanere tra i primi prof sino al 1978. Il lettore più curioso si domanderà, forse, come mai, dopo l’occasionale incontro degli Anni 2010, non abbia profittato della proposta di Sedgman, per tentar di vincere alfine un torneo dopo una carriera difficilmente imitabile nelle sconfitte. Risponderò, se non con lo storico adagio di Orazio, che mi pare esista un tempo adatto a diverse attività, nella vita. E che i miei doppi preferiti, oggi, sono quelli con gli amici, che terminano sempre con una felice cena e un buon rosso, senza che ci importi di chi ha vinto o perduto.