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 2016  gennaio 05 Martedì calendario

Il tema della maturità di Umberto Eco

Quando lo conobbi io, al liceo classico Plana di Alessandria, Umberto Eco non era un banale primo della classe. Lui frequentava quella maschile, io ero nella femminile. Stesso corso e anno. Era forse un po’ presuntuoso, ma brillante, intelligente, pronto alla battuta anche dissacrante sebbene a quei tempi ai ragazzi di buona famiglia, per una legge non scritta, si imponeva il bon ton.
L’ho rintracciato al telefono alla vigilia del suo compleanno, per riandare insieme ai tempi del nostro esame di maturità, nel luglio 1950. Si trova nella sua casa nell’Urbinate, un ex convento dei gesuiti dove passa le giornate lavorando, perché «quando si va in pensione si è impegnati molto di più, e non ne ho ancora capito bene il motivo, ergo lavoro sempre».
Alla prova scritta di italiano i temi proposti erano due: Umberto, intelligente e brillante, dotato di una memoria eccezionale, scelse «Orientamenti del pensiero politico italiano nella prima metà del secolo XIX». Scrisse otto pagine, che gli valsero come giudizio soltanto un «Discreto». Quel tema, mi dice ora, lui l’ha riletto due anni fa: «Me lo mandò un amico e non ricordavo assolutamente di averlo scritto. L’ho letto e mi è parso buono, certo migliore di tanti temi dei maturandi d’oggi. Penso proprio che meritasse un maggiore apprezzamento da parte della commissione».
Umberto studiava poco e rendeva molto e io, che studiavo molto e rendevo poco, lo invidiavo alla grande. Avrei venduto l’anima al diavolo pur di assomigliargli, sapere, come lui, radunare i compagni attorno a me, «tenere banco» sotto i portici di piazza Genova (oggi piazza Matteotti), a due passi dal nostro Plana, dove lui, con un savoir faire unito a quel briciolo di furbizia «mandrogna» spesso molto utile nella vita, sapeva concionare tanto bene. Aveva, e ha, a suo favore una memoria da Pico della Mirandola. Leggeva i giornaletti dell’epoca, a cominciare dal Vittorioso, ma si avvicinava anche ai mostri sacri della letteratura e della filosofia.
Era un ragazzo semplice, vestito alla «va là che vai bene» come i coetanei della piccola borghesia, purtroppo non faceva la corte alle compagne, scriveva testi per piccoli spettacoli teatral-musicali che andavano in scena al San Francesco. È la sala che ancor oggi ospita il tradizionale Gelindo, la commedia che narra del primo pastore, un alessandrino, adoratore di Gesù a Betlemme, e in cui Umberto Eco ragazzo ha recitato, con suo grande disappunto, solo in ruoli minori perché non parlava bene il dialetto. Anche in età matura, con Gianni Coscia, compagno e amico da sempre, irruppe sul palco durante una delle tante rappresentazioni natalizie indossando i panni di un centurione di Erode: «Quanto mi sono divertito, non sarei più uscito di scena, hanno quasi dovuto trascinarmi via», racconta adesso.
Infatti ora torna abbastanza spesso a gustarsi la «Divota Cumedia» come spettatore, ride, si appassiona alle battute dialettali di Gelindo e le traduce alla moglie Renate. E, quando ci incontriamo nell’intervallo, rievoca con me gli anni del liceo facendomi impazzire perché lui ricorda tutte le mie compagne d’allora (si vede che, sotto sotto, le ragazze le guardava, eccome), mentre io di parecchie ho perso memoria.
Anche di me si ricordava bene, la prima volta che ci siamo rivisti dopo tanti anni. Dovevo intervistarlo e esordii dandogli del «lei», mi sembrava ovvio e giusto. Lui mi guardò di traverso e con la erre tipica di tanti alessandrini – come Gianni Rivera, ad esempio – mi disse: «Ma cosa ti salta in mente? Tu sei Camagna, va pure avanti con le domande, ma dammi del tu». Pronunciò queste parole in buon dialetto. Col passare degli anni l’aveva imparato.