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 2016  gennaio 05 Martedì calendario

Il fascino dell’inverno, da Dickens a Vivaldi

Ricordo la mia prima tempesta di neve come se fosse ieri, anche se, in realtà, era il 12 novembre 1968. La neve cominciò a cadere subito dopo le tre. Ero a casa da scuola, in un appartamento del complesso Habitat ’67 – nel vecchio sito dell’Expo, sul San Lorenzo – dove la mia famiglia si era trasferita pochi mesi prima. Quando ripenso alla mia adolescenza a Montreal, vado ancora, per prima cosa, all’inverno.
Ma soprattutto, i miei sono ricordi di serenità. Eppure, nella prospettiva lunghissima della storia, amare l’inverno può sembrare perverso. Di tutte le metafore naturali dell’esistenza che abbiamo a disposizione – la luce contrapposta al buio, il dolce all’amaro – nessuna pare più naturale del contrasto fra le stagioni: il caldo contrapposto al freddo, la primavera all’autunno e, soprattutto, l’estate all’inverno. Le più antiche metafore dell’inverno sono tutte centrate sulla perdita. Nella mitologia classica, l’inverno è il dolore di Demetra per il rapimento della figlia sottratta da Ade.
D’altra parte, la predilezione per l’inverno, l’amore per i paesaggi invernali – la convinzione che a modo loro siano, per lo spirito e l’anima degli esseri umani, belli e seducenti ed essenziali né più né meno di una scena estiva – fanno parte della condizione moderna. Wallace Stevens, nella sua poesia L’uomo di neve, chiamò questo nuovo sentimento «una mente d’inverno» e lo identificò con la nostra nuova disponibilità ad accettare un mondo senza illusioni, a vivere in un mondo che potrebbe avere un significato ma che non ha Dio. Una mente d’inverno, una mente per l’inverno – che non lo avverta come una perdita di calore e di luce e, insieme, della speranza di vita e della divinità, ma sia pronta a rispondergli come alla presenza positiva e addirittura purificatrice di un qualcos’altro, bello e pieno di pace, certo, ma anche misterioso, strano, sublime – è un’inclinazione moderna. Io intendo “moderno” nello stesso senso in cui i più eminenti storici delle idee amano servirsi di questo termine per riferirsi non solo al qui e ora, ma anche al periodo storico che inizia verso la fine del Settecento, respira il fuoco emanato dai draghi gemelli delle due rivoluzioni, francese e industriale, e poi soffia ancora il suo alito di cenere almeno sino alla fine del Novecento, inspirando a fondo con i polmoni della scienza applicata e della cultura di massa. Un’epoca di sviluppo e un’epoca di dubbio.
Questa nuova idea dell’inverno si muove velocemente dai paesaggi gotici dei romantici tedeschi alle poetiche nevicate degli impressionisti, e dalle parabole natalizie ambientate nelle città di Charles Dickens alle visioni degli iceberg di Lawren Harris, per approdare a Nat King Cole che canta Baby, It’s Cold Outside. Il fascino dell’inverno, la sua aura romantica, stanno tutti nell’ultimo pasto di Scott al Polo e nella scarpa che Chaplin si mangia nello Yukon. L’inverno come immagine cambia insieme alla nostra percezione di essere al riparo dai suoi rigori: il vetro della finestra – come avvertivo in quella tempesta di neve novembrina – è la lente attraverso cui l’inverno moderno viene sempre contemplato. Il fascino dell’inverno è possibile solo quando abbiamo un luogo coperto, caldo e sicuro in cui rifugiarci, e l’inverno, oltre che un periodo da attraversare, diventa una stagione da osservare.
La conquista dell’inverno, sia come fatto fisico, sia come atto immaginativo, è uno dei grandi capitoli della rinegoziazione moderna dei confini del mondo, del modo in cui tracciamo le linee di separazione fra ciò che la natura è e ciò che noi proviamo verso di essa. A quanto pare, Vivaldi compose dei versi per ciascuna delle quattro stagioni; quelli che dedicò all’inverno descrivono tutti i rigori della stagione, eppure terminano nello stesso spirito della sua musica, quasi esclamando: «Ah, che stagione emozionante!». Si tratta di uno dei primi accenni, in tempi moderni, al fatto che nell’inverno vi sia qualcosa di specifico che offre piacere o aspira a esso.
Tutti noi conosciamo la grande era glaciale, il vasto fenomeno climatico, protagonista di cartoni animati e di spiegazioni alle scuole elementari, che imperversò sul pianeta cinquantamila anni fa; tuttavia, moltissimi climatologi ritengono, confortati in tale convinzione dalla maggior parte degli storici, che nel periodo fra il 1550 e il 1850, per ragioni ancora non del tutto chiarite, il pianeta sia stato investito da una seconda era glaciale, meno intensa e più breve. Di conseguenza, le scene invernali premoderne – quei dipinti di Bruegel con i cacciatori nella neve, i quadri fiamminghi di pattinatori sul ghiaccio, tutto quel mondo di svaghi così tipico dei Paesi Bassi – sono espressioni artistiche d’occasione di cui siamo debitori al breve periodo in cui tutt’a un tratto la gente si rese conto che il mondo era diventato improvvisamente molto freddo. Pressappoco all’inizio del Seicento, vi fu, per così dire, una sorta di falsa primavera dell’arte a soggetto invernale. Gran parte del materiale premoderno sull’inverno – per esempio la poesia di Shakespeare, in Pene d’amor perdute, Quando i ghiaccioli pendono dalla grondaia
– risale a quel periodo.
Eppure, con il passare del tempo, si ha la sensazione che il fenomeno, emozionante alla prima apparizione, fosse poi divenuto semplicemente fastidioso, al punto che, mentre ci avviciniamo al periodo di transizione fra vecchio e nuovo, alla nascita dei tempi moderni, al momento in cui Vivaldi scrisse le sue Quattro stagioni, troviamo il grande Samuel Johnson intento a comporre, nel 1747, una poesia intitolata Passeggiata d’inverno: qualcosa che a suo modo suscitava impressione, ma che era fondamentalmente negativo, spiacevole, fonte di delusione. Colli nudi, cieli arcigni, orridi regni... Uscire a dicembre con Samuel Johnson non doveva essere un gran divertimento.
Forse la prima affermazione, chiara e inequivocabile, di un atteggiamento completamente nuovo e moderno nei confronti dell’inverno, diverso sia dall’occasionale emozione della piccola era glaciale, sia dalla depressione dell’atteggiamento neoclassico, si trova in una poesia di William Cowper, poeta inglese modesto e dimenticato, ma di talento. In una poesia del 1785, Sera d’inverno, Cowper si dilunga nella descrizione del postiglione che arriva al suo cottage fuori mano – araldo della modernità che, partito da Londra, giunge nel suo vicariato – per portargli il giornale pieno di notizie sull’attività del Parlamento, poi descrive la sua lettura, seduto accanto al fuoco con accanto una tazza di tè caldo. È una scena incredibilmente moderna: un po’ di caffeina in una mano, il giornale nell’altra e il fuoco acceso, mentre il lettore assorbe tutte le notizie mantenendo una confortevole e rassicurante distanza dalla metropoli. Ora tutto il nuovo mondo della famiglia borghese, che condivide un focolare e un desco comuni, è mostrato più affascinante d’inverno che in qualsiasi altro periodo dell’anno. Questa è la nuova visione di Cowper che, con i suoi modi semplici, loquaci, informali, da middle class, annuncia un profondo cambiamento, un mutamento di sensibilità.
Questa è la prima inequivocabile affermazione dell’aspetto pittoresco dell’inverno, l’inverno che è tanto più amabile in quanto così interamente esterno. Con Cowper non stiamo semplicemente vivendo un’emozione mai descritta prima; in un certo senso, stiamo vivendo un’emozione che in precedenza non era mai stata provata. Per la prima volta è possibile avere un fuoco a buon mercato e raccogliere intorno al camino la propria famiglia, mentre fuori l’inverno continua: è stata cercata e trovata (o almeno acquistata da alcuni fortunati che vivono nelle comodità) una cruciale zona di sicurezza. Il bambino alla finestra è nato oggi.