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 2016  gennaio 05 Martedì calendario

Confessioni di una straniera. A colloquio con Isabel Allende

Esule dal Cile, da tempo ha il passaporto statunitense, ma continua a sentirsi straniera negli Stati Uniti. Isabel Allende dice di aver paura di Donald Trump, parla di case di riposo e di una vita nuova in tarda età. Al reading che ha tenuto a Francoforte le guardie del corpo hanno dovuto proteggerla dall’assalto dei fan, come una popstar, ma quando la intervistiamo nel suo hotel non sembra disturbata dal viavai. È abituata, da quando il suo romanzo “La casa degli spiriti” divenne un successo mondiale. Per il pubblico la Allende, oggi settantatreenne, resta una grande autrice, come dimostrano gli incontri pubblici e le classifiche dei bestseller. I suoi ultimi libri però sono stati giudicati dai critici banali e kitsch. Lei non replica. Pensa di avere ancora molto da dire. Si presenta così anche nell’intervista: una piccola donna piena di energia. Ha iniziato a scrivere tutti i suoi romanzi l’8 gennaio. Sarà così anche quest’anno?
«Sì. L’8 gennaio è un giorno come un altro nella mia vita, se non per il proposito incrollabile di buttarmi a capofitto in un nuovo libro. È un rituale che mantengo da quando sono fuggita in Venezuela dal Cile, la mia patria, per le minacce del regime di Pinochet, e un 8 gennaio ricevetti per telefono la notizia che mio zio in Cile era in punto di morte. Gli scrissi allora una lunga lettera, che non ricevette mai perché morì prima. Quella lettera fu in un certo senso l’incipit del mio primo romanzo, La casa degli spiriti. Da allora ho iniziato a scrivere tutti i miei libri l’8 gennaio».
Si può essere creativi e così disciplinati allo stesso tempo?
«Sotto questo profilo sono molto tedesca, ma anche superstiziosa. Non significa che quando mi metto a tavolino l’8 gennaio io abbia già in mente un libro intero. Ho solo l’intenzione di scriverlo. A volte ho già un’idea del luogo o dell’epoca, ma non sempre. Questa volta non ho nessuna idea: nella mia vita ultimamente ci sono stati dei grandi cambiamenti».
Cosa è successo?
«Mi sono separata da mio marito, dopo 27 anni di matrimonio. Per molti anni sono stata molto innamorata di lui, poi è finita. Ho dovuto lasciarlo andare e con lui la vita trascorsa assieme. Ho dovuto lasciare le proprietà che avevamo in comune. Tutto. La grande casa, i mobili. Poi è morto anche il mio cane che era con noi da 15 anni. Che metafora! La vita del mio cane è finita assieme al mio matrimonio. Mio marito e io abbiamo pianto il nostro cane, ma non siamo riusciti a piangere per noi».
Sembra molto serena.
«Potrei dire che ho passato mesi cupi e terribili, ma cerco di vedere le cose da un altro punto di vista. A 73 anni inizio una vita nuova. Ho la mia indipendenza, un figlio e una nuora che abitano vicino a me. Considero la separazione e molto altro come parte della mia preparazione alla vecchiaia. Ricominciare, lasciarsi tutto alle spalle. Sto imparando a farlo. Vale anche per altre persone. I miei tre nipoti, ad esempio, che per tanti anni sono stati sempre con me. Quando erano piccoli stavo con loro tutti i giorni, poi sono andati al college, all’università, adesso hanno la loro vita. Ci vediamo ogni tanto, sono molto carini con me. Solo che non vogliono che la nonna si impicci delle loro cose».
A un tratto è stata abbandonata.
«Per la prima volta nella mia vita sono proprio sola, è vero. Abito in una casa molto piccola, vicina al mio studio a Sausalito, a nord di San Francisco. Conobbi il mio primo marito che ero giovanissima. Siamo stati insieme molti anni, abbiamo avuto due figli. Tre mesi dopo la separazione da lui conobbi il mio secondo marito, Willie, con cui sono rimasta 27 anni. La solitudine è un’esperienza nuova, non necessariamente negativa».
Qualche anno fa aveva dichiarato pubblicamente di voler andare in pensione.
«Ero in un brutto momento ( ride). Ora so che probabilmente continuerò a scrivere finché mi funzionerà il cervello. Perché mi rende felice. Ci sono tanti temi su cui voglio ancora scrivere, tipo l’esperienza di invecchiare. Ho avuto la grande fortuna di essere rimasta finora in buona salute».
Il suo ultimo romanzo, “L’amante giapponese”, è ambientato in una casa di riposo. Che effetto le ha fatto doversi documentare?
«È stato strano. L’istituto di cui scrivo, o meglio il modello a cui mi sono ispirata, esiste davvero. Si chiama “The Redwoods” e si trova a nord di San Francisco. Ci vive una persona cui sono molto legata. Ho trascorso molto tempo nella struttura per documentarmi, vi ho anche pernottato, ho parlato con gli ospiti, con il personale, per capire com’è la vita lì dentro. Ci sono due ordini di problemi, si mangia malissimo e si è circondati da persone che in media hanno 85 anni. Può essere molto deprimente».
Riesce a immaginare di vivere in una casa di riposo?
«Non so. Finché mio figlio e mia nuora abiteranno vicino a me e potrò permettermi persone di servizio vivrò da sola. Se tutto questo dovesse venir meno, dovrò accettare quello che sarà. Per questo spero di non raggiungere l’età di mia madre, che ha 95 anni. Sta ancora bene, ma io preferirei morire più giovane, godendo ancora di una buona qualità di vita e essendo autosufficiente. Invecchiando si impara che prima o poi si perde tutto, l’autosufficienza, l’autodeterminazione».
Il suo romanzo non parla anche di persone giunte negli Usa come rifugiati o immigrati. Cosa pensa della crisi dei profughi in Europa?
«È una questione che mi sta a cuore, capisco molto bene cosa si prova a lasciare la propria patria. Nessuno lascia il suo paese, l’ambiente che gli è familiare, se non vi è costretto. Chi abbandona la propria casa, si imbarca con i figli mettendo a rischio la vita per cercare rifugio in un paese in cui non è bene accetto, lo fa per un unico motivo: perché restare sarebbe ancora peggio».
Ormai è cittadina americana, ma ha detto che lei si sente ancora straniera.
«Non è necessariamente una brutta sensazione sentirsi straniera. Resterò sempre straniera negli Usa, anche se vivo lì ormai da 25 anni. Avrò sempre il mio accento, l’aspetto esotico, mi sentirò sempre cilena. Mi sento in visita, da privilegiata. Non ho la sensazione di essere estranea perché straniera, anch’io pago le tasse, sono impegnata, da tempo sono iscritta al Partito democratico».
La campagna della Clinton si è arenata, non solo per lo scandalo delle mail. Se dovesse scrivere un discorso per riportarla in auge, cosa direbbe?
«Non sono brava a scrivere discorsi. Il problema della Clinton è un altro: i democratici con la sua candidatura non hanno nulla di nuovo da offrire. Per i giovani americani la Clinton rappresenta la solita vecchia politica. È un peccato, perché sarebbe proprio l’ora che una donna andasse alla Casa Bianca. Inoltre la Clinton è ha capacità politiche straordinarie, un’esperienza superiore a qualunque altro candidato. E capisco perché non basa la sua campagna sulla necessità che una donna finalmente entri alla Casa Bianca. Sarebbe una strategia pericolosa: immagini se si impegolasse su questo tema in un confronto con Donald Trump».
Cosa le fa pensare il grande consenso di cui lui gode?
«In ogni società c’è gente che ragiona come Donal Trump. In Francia Marine Le Pen – che si presenta in maniera diversa, ma sostanzialmente è molto simile. Una fetta di tutte le popolazioni ha una mentalità fascista. Viviamo in società democratiche capaci di smorzarla. Spero tanto che Trump non venga eletto, ma può essere che lo sia. In Germania inizialmente nessuno pensava che Hitler potesse conquistare il paese, quando se ne resero conto era troppo tardi per fermarlo».
Non vorrà paragonare Trump a Hitler?
«Voglio solo dire che mi fa paura e mi inquieta sentir dire di nuovo: “Non badate a questo Trump, è solo un pagliaccio”. Per essere solo un pagliaccio ne ha fatta di strada. Dobbiamo stare attenti».