Corriere della Sera, 5 gennaio 2016
Il presidente degli Stati Uniti è un monarca elettivo
L’Isis deriva, mutatis mutandis, dalla sciagurata decisione assunta dalla amministrazione di George W. Bush di attaccare l’Iraq e fu condivisa da diversi Paesi europei, tra cui la Gran Bretagna di Tony Blair e l’Italia di Silvio Berlusconi. L’Iraq era un paese efficiente e non vi erano né armi atomiche, né batteriologiche, né presenza di Al Qaeda ben tenuta fuori dai propri confini. Il Paese è stato devastato, un processo farsa condannò a morte Saddam Hussein, la società Halliburton, di cui l’allora vice presidente degli Stati Uniti Dick Cheney era stato in precedenza amministratore delegato, accrebbe enormemente i profitti per le vaste forniture all’esercito americano impegnato nella guerra. I responsabili di quella disgraziata guerra vivono tutti serenamente e Bush trascorre il suo tempo dilettandosi con la pittura. Obama, al suo insediamento, lo ringraziò (sic!) della sua opera. Le devastanti decisioni assunte dai governi vincitori sono sempre immuni o, al massimo, condannati solo moralmente. Qual è il suo giudizio su questa vergognosa pagina di storia? Federico ArgentieriMilano
Caro Argentieri, il presidente degli Stati Uniti è un monarca elettivo. Le campagne elettorali per la Casa Bianca sono scontri all’ultimo sangue in cui i candidati non esitano a lanciarsi accuse reciproche e i loro collaboratori non smettono di pescare nel passato del concorrente tutto ciò che può nuocergli. Ma il vincitore ha diritto all’omaggio dell’avversario e alla lealtà della nazione. Possono esservi circostanze in cui il conto dei voti produce risultati contestabili, come è accaduto nel 2000, quando lo scrutinio nella Florida provocò un aspro confronto che fu risolto, alla fine, da una delibera della Corte Suprema. Ma il presidente americano, pur essendo capo dell’esecutivo, rappresenta, come i re, l’unità della nazione e gode di una specie di legittimità dinastica che si trasmette da un inquilino della Casa Bianca al suo successore. Questo non significa che il rapporto tra i vincitori e i vinti, dopo le elezioni, debba essere necessariamente idilliaco. Vi sono stati casi in cui il presidente, anche dopo la vittoria, ha continuato a suscitare, in una parte della società americana, una opposizione rabbiosa. È accaduto, in particolare, durante la presidenza di Franklin Delano Roosevelt che molti americani consideravano troppo «socialista» e filo-sovietico. È accaduto durante la presidenza di Richard Nixon, sospettato di progettare la trasformazione degli Stati Uniti in una Repubblica imperiale e poliziesca. E sta accadendo durante la presidenza di Barack Obama che molti repubblicani accusano di essere inetto, imbelle, indifferente ai reali interessi politici e militari degli Stati Uniti. Dietro questa ostilità si nasconde un forte disappunto per la presenza di un afro-americano alla Casa Bianca. Ma nessun presidente può polemizzare apertamente con il proprio predecessore senza mettere in discussione la continuità dinastica della federazione americana. È probabile che in questa regola del galateo politico degli Stati Uniti si nasconda il ricordo della guerra civile che ha sconvolto il Paese negli anni Sessanta del XIX secolo. Vi sono circostanze in cui il valore dell’unità nazionale prevale su qualsiasi altra considerazione.