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 2016  gennaio 05 Martedì calendario

Pregi e difetti di Lincoln

Accettazione delle proprie incertezze e uso sapiente dell’ironia furono le caratteristiche principali del più grande presidente della storia degli Stati Uniti. È la tesi di uno straordinario libro di Tiziano Bonazzi, Abraham Lincoln. Un dramma americano, che sta per essere pubblicato dal Mulino. Bonazzi non si occupa esclusivamente della Guerra civile (1861-1865) alla quale, in tempi più o meno recenti, sono già state dedicate pagine molto interessanti da Arnaldo Testi in La formazione degli Stati Uniti, Robert H. Wiebe in La democrazia americana (entrambi per Il Mulino), Raimondo Luraghi in Storia della guerra civile americana (Bur) ed Eric Foner in Storia della libertà americana (Donzelli). Ma il testo di riferimento per Bonazzi sembra essere, piuttosto, un classico del teologo luterano Reinhold Niebuhr, L’ironia della storia americana, pubblicato in Italia da Bompiani. In che senso? Per Lincoln, scrive Bonazzi, fu importantissimo il senso dell’ironia «che gli consentiva di gestire la lacerante contraddizione tra la libertà che amava con passione e l’impossibilità di credere in essa». Con «l’ironia, le battute, il comico capovolgimento delle situazioni, Lincoln alleggeriva le tensioni sue e degli altri e nascondeva il suo vero pensiero nella tradizione del furbo popolano di buon senso, ma forse si faceva anche beffe di se stesso». Il suo humour «era un codice con cui velatamente trasmetteva la sua impotenza e si difendeva da essa». All’utopia opponeva l’incertezza, «non come titubanza, ma come modo per aggirare l’inconoscibilità delle cose attraverso il lento approfondimento delle questioni e l’attesa, una tattica che lo portava a volar basso e però gli consentiva di sfuggire sia all’entusiasmo, sia alla disperazione». Non fu facile la situazione in cui Lincoln si trovò quando giunse al potere: alle elezioni presidenziali del 1860 vinse con 1.866.452 voti e i suoi avversari ne ebbero, frazionati, il 20 per cento in più: Douglas 1.376.957, Breckinridge 849.781, Bell 588.879. Negli Stati del Sud ottenne solo il 2 per cento. E fu subito la secessione del South Carolina, a cui si sarebbero aggiunti, a gennaio del 1861, Georgia, Alabama, Florida, Mississippi, Louisiana e Texas, che scelsero come presidente alternativo Jefferson Davis. La guerra che ne seguì fu assai complessa: il Nord subì numerosi rovesci militari, la stessa Washington fu più volte in pericolo, il Sud – a dispetto della disparità di abitanti: nove milioni e mezzo (di cui quattro milioni di schiavi) contro i ventidue «settentrionali» – mostrò un’inaspettata vitalità. I morti ammontarono a una cifra spaventosa, oltre seicentomila (circa la metà per dissenteria). Francia e Gran Bretagna attesero la fine delle ostilità prima di schierarsi. E in Europa non pochi considerarono quella dei sudisti come una guerra di liberazione meritevole di una qualche simpatia. Solo un uomo come Lincoln poteva far fronte a una situazione così complicata. Nato nel 1809 in una fattoria del Kentucky da una famiglia che sette anni dopo si sarebbe trasferita nell’Indiana, visse in condizioni disagiate fino all’età di trent’anni. Sua madre morì giovane per il latte infetto da mucche ammalate di brucellosi. Il quinquennio che Lincoln trascorse poi a New Salem, dove era andato a vivere nel 1831, si risolse, secondo Bonazzi, in una «pirotecnica serie di tentativi di uscire dal mondo contadino che non amava e di affermarsi in mestieri borghesi». Fu un vivace barzellettiere, capace di affrontare da solo una gang di bulli, ma anche incline alla depressione. Era irriverente nei confronti della religione a dispetto dell’appartenenza dei suoi genitori a una Chiesa battista, la Little Pigeon Church, che non riconosceva alcuna autorità tranne la lettera della Bibbia: secondo molti testimoni, da ragazzo scrisse un’operetta ferocemente anticristiana, che successivamente i suoi amici si affrettarono a distruggere per evitare che lo intralciasse nella carriera politica. Per molto tempo lavorò come giornaliero nei campi, ma tentò anche la via del commercio, mettendo su un emporio che presto fallì, lasciandolo indebitato a lungo (lui però restituì i soldi fino all’ultimo dollaro, guadagnandosi così per il resto della vita il nomignolo «Honest Abe»). Ebbe un grande amore a New Salem per Ann Rutledge, figlia del fondatore della cittadina, che però morì quasi subito, nel 1835, probabilmente di tifo. Poi nel 1839 Lincoln conobbe l’«energica e ambiziosa» Mary Todd, figlia di un ricco piantatore di Lexington nel Kentucky, con la quale si fidanzò, tentennò, ruppe il fidanzamento, ma poi, tornato alla carica, la sposò nel 1842.   Sono gli anni in cui inizia la sua vita politica, che ha una tappa fondamentale nel biennio da deputato whig (1846-1848). In quegli anni gli Stati Uniti combattono una dura guerra contro il Messico (alla quale Lincoln si dichiara contrario) che si conclude con la loro vittoria. Reid Mitchell in La guerra civile americana (Il Mulino) spiega alla perfezione come e perché l’allora presidente, il democratico James K. Polk, in quel momento scelse la via del compromesso con la Gran Bretagna per le questioni di confine con il Canada e della guerra, invece, con il Messico. La guerra con il Messico, in sostanza, allargava l’area degli Stati schiavisti. Henry David Thoreau scrisse La disobbedienza civile (che avrebbe avuto grande influenza sul pensiero di Gandhi e di Martin Luther King) contro il conflitto armato con il Messico, e altri nordisti dichiararono che quella di Polk era, sotto un manto di dissimulazione, «una misura a favore della schiavitù». Fu questa anche l’opinione di Lincoln nel corso della sua breve stagione politica della seconda metà degli anni Quaranta. Terminata la quale tornò a Springfield, nello Stato dell’Illinois, dove aprì uno studio di avvocato. Ma, raccontò il suo partner e biografo William Henry Herndon, ancorché le cose andassero bene, soffriva di crisi depressive e gli erano di sollievo solo i figli che portava al lavoro con sé: «Quei viziati dei bambini», riferì Herndon, «buttavano per aria l’ufficio, spargevano i libri dappertutto, rompevano le penne, rovesciavano l’inchiostro e facevano pipì liberamente sul pavimento». Senza che lui reagisse in alcun modo. Anzi assisteva a questo caravanserraglio con un sorriso divertito. È in questa fase che si fa strada il tema dell’abolizione della schiavitù. Bonazzi precisa che «il lavoro schiavo, ritenuto meno efficiente di quello libero dalla maggior parte degli economisti a partire da Adam Smith, era, in realtà, estremamente produttivo nel sistema di piantagione statunitense». A surriscaldare gli animi intervenne nell’ottobre del 1859 l’azione di John Brown, che cercò di provocare un’insurrezione degli schiavi e riuscì a impadronirsi di un arsenale federale a Harper’s Ferry, in Virginia. Un tentativo velleitario che provocò diciassette morti e, secondo Mitchell, accese le fantasie di molti americani. Soprattutto per il fatto che la Virginia fece impiccare Brown non solo per omicidio e istigazione alla rivolta, ma anche con «l’inverosimile accusa di tradimento verso lo Stato». Malgrado ciò, ancora alla fine degli anni Cinquanta gli abolizionisti neri come Frederick Douglass o bianchi come William L. Garrison, ricorda Bonazzi, «nonostante il loro impegno e visibilità, non riuscirono a mobilitare se non minoranze spesso piccole della popolazione statunitense, tranne in qualche comunità del New England». Minoranze che tendevano a dividersi ulteriormente come accadde all’associazione di Garrison, abbandonata dai fratelli Tappan di New York, i quali non tolleravano che in essa anche le donne avessero assunto ruoli dirigenti. 
Gli argomenti a favore della conservazione della schiavitù equiparavano la condizione dei neri a quella degli operai del Nord. A tutto vantaggio dei primi. Secondo il senatore Henry Hammond del South Carolina, la differenza consisteva nel fatto che «i nostri schiavi sono assunti a vita, non c’è fame per loro, non ci sono accattoni, non c’è disoccupazione e neppure superlavoro». Lo stesso non si poteva dire per i bianchi assunti nelle aziende del Nord. Ciò spiegava, secondo Hammond, perché gli schiavi molto spesso non apparissero affatto insofferenti alla loro condizione. Fu proprio Lincoln una volta a domandarsi pubblicamente come fosse possibile che un gruppo di schiavi, che aveva visto incatenati assieme «come pesci infilzati su uno spiedo», potessero apparire come «la gente più allegra e felice del mondo».  Al 1837 data la prima dichiarazione di Lincoln sul tema: «La schiavitù si basa su ingiustizia e cattiva politica; ma le dottrine abolizioniste tendono ad accrescere piuttosto che a farne diminuire i mali». Negli ultimi mesi in cui è deputato ritira un progetto di legge per abolire la schiavitù nel distretto di Columbia. E fino al termine degli anni Quaranta le sue dichiarazioni pubbliche contro la schiavitù sono davvero assai poche. In privato, sottolinea Bonazzi, il suo atteggiamento ha «tratti contraddittori». Siamo a conoscenza del fatto che «raccontava storielle razziste» e che lui e la moglie «amavano molto i minstrels show, gli sketch in cui attori bianchi con il volto dipinto di nero ironizzavano sulla vita, il dialetto e la musica dei neri, rappresentandoli sempre come pigri, superstiziosi e stupidi» (va ricordato però che forme analoghe di pubblico dileggio colpirono all’epoca gli irlandesi fuggiti dalla carestia in patria, i quali, una volta immigrati nel nuovo mondo, venivano presentati come straccioni, scimmie, buoni a nulla).   In ogni caso Lincoln fino agli anni della Guerra civile distinse «con estrema accuratezza il diritto dei neri alla libertà da quello di essere parificati ai bianchi». Il futuro presidente dissentiva dai propositi di chi prospettava per i neri, una volta liberati, l’acquisizione degli stessi diritti dei bianchi. Sosteneva le tesi dell’American Colonization Society, che aveva studiato un progetto per mandare gli ex schiavi, una volta liberati, in Africa. Cosa alla quale i neri d’America erano decisamente contrari. Ne parlò esplicitamente nel discorso di Peoria (1854) – che segnò il suo ritorno in politica – là dove ribadì che non intendeva minimamente attaccare la schiavitù negli Stati dove essa già esisteva e si proponeva di restituire i neri liberati alla loro terra d’origine. Ribadiva in ogni circostanza di considerare gli afroamericani «esseri inferiori». Nel corso del conflitto ricevette alla Casa Bianca un gruppo di abolizionisti neri, ai quali fece un discorso assai scorretto persino per quei tempi: «Non fosse per la presenza della vostra razza, fra noi non avremmo la guerra, anche se a molti da entrambe le parti non importa nulla di voi». E, in una lettera al «Washington Chronicle», scrisse: «Il mio principale obiettivo in questo scontro è salvare l’Unione e non salvare o distruggere la schiavitù: se potessi salvare l’Unione senza liberare alcuno schiavo, lo farei». Pur se poi aggiungeva che si sarebbe comportato allo stesso modo anche se, sempre per salvare l’Unione, avesse dovuto liberarli tutti o solo in parte. Si ha la prova, scrive Bonazzi «di un suo razzismo o al massimo di un paternalismo pervaso di razzismo che la lotta allo schiavismo non annullò e che allungò la sua ombra ben al di là della Guerra civile». Forse è per questo che gli Stati Uniti hanno poi impiegato oltre un secolo prima di riuscire ad affrontare con decisione la questione razziale. Grazie anche all’ironia e al sapiente uso dell’incertezza, Lincoln riuscì comunque a far compiere al suo Paese un’autentica rivoluzione. Peccato che un colpo di pistola lo tolse di mezzo quel 14 aprile del 1865, quando le sue doti sarebbero state ancor più necessarie.