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 2016  gennaio 04 Lunedì calendario

Le origini della camorra

Il termine “andrangheta” deriva dal greco anerandros (uomo) e testimonia, con la forza inoppugnabile delle etimologie, come la criminalità organizzata calabrese abbia origine negli antichi simposi dei liberi cittadini della Magna Grecia; analogamente, la parola “mafia” non è altro che la trascrizione del grido “ Ma fille” (figlia mia) con cui, di fronte alle reiterate violenze sulle ragazze del luogo, un padre chiamò i palermitani alla rivolta contro gli occupanti francesi nella celebre insurrezione dei Vespri siciliani del 1282... Pure leggende: come ben sanno gli storici. Ma siccome si tratta di temi scottanti per la nostra attualità e non di rado capita di sentire ancora raccontare in pubblico amenità del genere, persino da qualche magistrato antimafia, conviene ripeterlo una volta di più: la criminalità organizzata che oggi contende allo stato italiano il controllo di ampie porzioni della penisola non affonda tanto lontano le sue radici. E proprio per questo non è imbattibile. 
Tuttavia la domanda mantiene intatto il suo fascino. Quando? E soprattutto: perché? Vogliamo, dobbiamo sapere. E ottimi studiosi si sono dedicati a questo tema in tempi recenti. Non è però direttamente da questi interrogativi che muove uno dei libri di storia più importanti degli ultimi anni: La mala setta. Alle origini di mafia e camorra (1859-1878), scritto da uno studioso sino a oggi internazionalmente apprezzato per i suoi lavori sulla politica barocca e sulle rivoluzioni di età moderna (Masaniello, il 1649 inglese e il 1789 francese). In quattrocento densissime pagine Franco Benigno sovverte gran parte delle nostre convinzioni sulla fase aurorale della criminalità organizzata, e lo fa con una mossa interpretativa che – sinteticamente – si può definire come il rifiuto dell’eccezionalismo siciliano e napoletano. Nella prospettiva di Benigno, infatti, gli inafferrabili primordi di mafia e camorra si lasciano mettere a fuoco solo a patto di allargare lo sguardo oltre i confini del Mezzogiorno d’Italia.
Gli storici che lavorano su questi argomenti hanno notato da tempo l’improvviso moltiplicarsi delle testimonianze su camorra e mafia negli anni immediatamente successivi alla Unità: reportage dalle tinte spesso assai fosche nei quali gli autori narrano la discesa nei bassifondi della città e la scoperta, grazie alla confessione di un “pentito”, delle regole con cui si autogoverna il mondo parallelo dei delinquenti, con le sue gerarchie, i suoi giuramenti e rituali, la sua suddivisione in arti e corporazioni secondo il modello delle professioni legali. Prove della esistenza di una setta dal potere tentacolare che arriverebbe a inquadrare decine di migliaia di persone e a controllare ogni snodo della vita di Napoli e Palermo.
Anche Benigno parte da questi testi, ma opera un duplice scarto. Anzitutto ha gioco facile a mostrare come simili coloritissime testimonianze ricalchino in maniera inequivocabile i racconti dei grandi narratori francesi del primo Ottocento sul mondo del crimine, dai romanzi di Balzac, Victor Hugo ed Eugene Sue (I misteri di Parigi) alle famose memorie dell’ex galeotto e poi commissario di polizia Vidocq. La rappresentazione di un mondo popolare al confine tra accattonaggio e delinquenza offerta da queste opere ha goduto di un successo considerevolissimo in Europa, al punto di sentire ancora nel cinema degli anni Trenta, da René Clair (Il milione) a Fritz Lang (M. il mostro di Dusseldorf). Ora, nota Benigno, situazioni, atmosfere e singoli dettagli corrispondono troppo perfettamente perché non si riconosca anche nelle prime testimonianze su camorra e mafia il segno inequivocabile di un simile immaginario romanzesco.
Il passo davvero decisivo de La mala setta è però quello successivo. Benigno mostra come il rapido imporsi della nuova interpretazione del mondo del crimine napoletano all’indomani del 1860 non sia affatto casuale. Se in pochi anni la tradizionale immagine dell’indolente “lazzarone” napoletano è stata cancellata da quella del “camorrista” è perché il modello romanzesco importato dalla Francia si rivelava particolarmente funzionale alla politica repressiva della Destra storica. Le plebi di Napoli e Palermo avevano dato un contributo militare straordinario all’impresa garibaldina e i reduci della spedizione, animati da sentimenti democratici e spesso repubblicani, costituivano un tenace focolaio di opposizione alla piega moderata che il movimento risorgimentale aveva preso dopo l’annessione al regno dei Savoia. Di fronte all’obiettivo pericolo che queste masse cittadine incarnavano per la monarchia, i modelli romanzeschi francesi potevano servire a due scopi intrecciati tra loro: vale a dire a derubricare gli attivisti politici e in particolare i membri della (disciolta) Guardia nazionale di Garibaldi a semplici delinquenti comuni, e a creare il consenso per una politica di repressione urbana analoga a quella contro il brigantaggio nelle campagne, adombrando lo spauracchio di un’oscura minaccia politico-criminale. Come infatti nota Benigno (da ottimo conoscitore dei trompe-l’oeil barocchi), a seconda della lente adoperata gli stessi personaggi ci vengono incontro come eroici patrioti in camicia rossa non ancora rassegnati alla involuzione del 1861 o come pericolosi delinquenti comuni.
Benigno mostra facilmente come in questa prima fase le medesime retoriche messe in campo contro camorra e mafia siano adoperate dalla stampa governativa e dalle forze di polizia per descrivere e contrastare anche le presunte associazioni a delinquere attive nelle altre parti d’Italia dove più forte era la tradizione repubblicana, come nel caso della “Balla” di Bologna (una ipotetica associazione di malfattori accusata dei più diversi delitti). Rileggendo le prime testimonianze su mafiosi e camorristi alla luce della riflessione sull’oggetto sicuramente più incandescente della scienza sociale ottocentesca – le così dette “classi pericolose”, vale a dire quei settori miserabili del popolo presso i quali più facilmente poteva trovare ascolto la propaganda radicale – Benigno reintegra così la storia del crimine organizzato nella storia politica e sociale europea alla luce della “grande paura” scatenata in tutto il continente dall’avanzata del movimento socialista (particolarmente dopo gli eventi della Comune parigina del 1870).
Le tesi di Benigno traggono ovviamente forza dall’imponente scavo archivistico che le sorregge. I lettori si divertiranno a scoprire, per esempio, che all’origine della rappresentazione della camorra come società segreta dalla ramificazione tentacolare incontriamo niente meno che Alexandre Dumas figlio (sic: è invece il padre, gda) : in una prima fase sostenitore dei garibaldini, ma presto destinato a spostare su posizioni sempre più filogovernative il quotidiano da lui fondato a Napoli, «L’Indipendente» (è a lui che dobbiamo infatti, nel marzo del 1862, la prima descrizione dettagliata della setta della camorra). E la pagina in cui Benigno estrae dall’Archivio di Stato di Napoli la “pistola fumante” che lega le prime ricostruzioni leggendarie della “mala setta” all’attività di “disinformazione” della polizia di Silvio Spaventa e del ministro degli Interni Marco Minghetti è senza dubbio una delle più esplosive dell’intero libro.
Se Benigno ha ragione, solo successivamente camorra e mafia si sono date l’organizzazione verticistica per cui oggi risultano così temibili. La mala setta non ci dice come e quando ciò è avvenuto (e, sbagliando, qualche lettore potrebbe esserne deluso). Questo non vuol dire però che il libro manchi di una pars costruens, ma solo che – significativamente – questa non riguarda tanto la nascita della criminalità organizzata quanto il difficile processo di formazione dello stato nazionale contro alcuni dei suoi propugnatori. La mala setta ci chiede insomma di fare i conti con la criminalizzazione delle “classi pericolose” (non solo meridionali) come tassello essenziale di una strategia di controllo dei ceti popolari, in una fase di instancabile attivismo garibaldino, repubblicano e anarchico. In cambio però ci dà moltissimo: perché alla fine, anche da questo punto di vista, la Napoli di Spaventa e Minghetti si rivela assai meno distante dalla Parigi del barone Haussmann di quanto non continui a ripetere un discorso pubblico troppo spesso incapace, ancora oggi, di affrancarsi del tutto dal mito della costitutiva diversità meridionale.