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 2016  gennaio 03 Domenica calendario

Capire l’italiano per parlarlo e scriverlo meglio

C’è qualcosa di estremamente tranquillizzante nel leggere una grammatica. Può sembrare paradossale, ma provate a farlo. Sentirete che alla vostra lingua accade qualcosa di simile a ciò che accade al corpo nella pratica dello yoga. Aumenta la consapevolezza della sua struttura, delle sue potenzialità, della sua energia. Non una grammatica scolastica, troppo schematica. Ma uno dei libri in circolazione che descrivono l’uso della lingua, destinati a coloro che vivono immersi nella quotidianità della vita adulta. Non sto parlando di correggere i propri errori, risolvere i dubbi che ognuno di noi può avere. Ma di una cosa diversa: la pratica di guardare la propria lingua dall’esterno, come un oggetto staccato da noi. Una cosa molto più complessa (e gratificante) di quanto sembri. Ci identifichiamo con la nostralingua: la definizione di lingua madre esprime bene la componente di appartenenza profonda, di saldatura emotiva, con lo strumento che per primo abbiamo imparato per comunicare verbalmente con i nostri simili. 
Tra i libri in commercio con i quali è possibile fare questa esperienza, la Grammatica dell’italiano adulto di Vittorio Coletti, appena pubblicato dal Mulino, è forse il più adatto. L’aggettivo adulto può lasciare interdetti: ma rende bene l’idea che è alla base di questo libro. Una grammatica per coloro che hanno sufficiente pratica alle spalle da poter affrontare quello che lo stesso Coletti chiama «un percorso ragionato dentro l’italiano». Con l’obiettivo, dichiarato fin dall’inizio, «non solo di risolvere i dubbi, ma (…)soprattutto di spiegare perché questi nascono, perché sono quelli e non altri, perché spuntano in un piano e modo della lingua più che in un altro, perché nello scritto sono diversi dal parlato».
Qualcosa di diverso e più maturo, insomma, dei molti prontuari e scioglidubbi che vediamo in libreria. Un modo per attraversare l’italiano dall’interno per capirne meglio il funzionamento, le eccezioni, le difficoltà ma anche la storia. Un esempio elementare: perché il plurale di amico è amici, ma quello di cuoco è cuochi? Nel primo caso ha prevalso la morfologia, nel secondo la pronuncia della c. Ma dietro c’è un processo di fisiologica selezione: nel Trecento circolavano sia amichi che amici. D’altronde, se guardiamo alla storia dell’italiano sono moltissimi gli usi per noi ormai inaccettabili. Nell’Ottocento, forme oggi fantozziane come facci o vadi erano ancora possibili. Ogni lingua cambia, si trasforma, si assesta. Percorrerne i punti critici permette di cogliere le tracce di quell’architettura complessa – flessioni, accordi, modalità – che ogni giorno maneggiamo senza rendercene conto. Gli stessi congiuntivi appena evocati rispondono – come quasi sempre gli errori – a un’esigenza di semplificazione: se li evitiamo, è solo perché abbiamo ormai assimilato una delle tante particolarità dell’uso attuale. Oggi che l’italiano si scrive e si parla come mai prima nella sua storia, questa trasformazione non si è affatto fermata. Anche se non disdegna gli evergreen del genere (èdile o edìle?, ecc.), è soprattutto a questa mobilità della lingua che Coletti presta attenzione. È il caso della frequenza dell’indicativo (invece del congiuntivo) in espressioni come «lui ritiene che è», «mi chiedo che senso ha». Oppure della crescita nell’uso di parole considerate come invariabili (il/i boala/le sdraio; composti comeapripistagirocollo). Il libro è una miniera di esempi del genere, raccolti setacciando la rete o le molte banche dati disponibili. Coletti ha d’altronde una grande esperienza in merito, frutto anche del suo lavoro di lessicografo (è autore, con Francesco Sabatini, di uno dei più diffusi vocabolari dell’italiano: Il Sabatini-Coletti – Dizionario della lingua italiana).
Ma, di là dai singoli casi, ciò che si vede è soprattutto come il modello della nostra norma linguistica si sia progressivamente adattato ai diversi usi. Lo stesso concetto di errore si è trasformato, sfrangiato. Accanto a cose che sono rimaste inaccettabili (l’elenco sarebbe lungo), ce ne sono altre che lo sono molto meno. Ricordate il classico divieto del ma a inizio di frase? Una congiunzione dovrebbe avere sempre qualcosa che la segue e la precede (qualcosa da congiungere, appunto). Ma tutti noi la usiamo anche slegata (non solo in questa frase, ma anche nell’inizio di questo paragrafo). Questo mutamento di paradigma grammaticale è ormai largamente assimilato anche nella scuola: più inclusivo, problematico, aperto, modellato sulle reali esigenze comunicative. E può essere considerato come uno degli effetti della maturazione dell’italiano dopo oltre un secolo di scolarizzazione diffusa.
È vero, si fanno ancora errori di ortografia. Ma, come mostrano le perle scritte sui muri da semianalfabeti che fanno la gioia dei social network, è qualcosa di residuale, che abbiamo alle spalle. Altrimenti non ne rideremmo. Non sui giornali, almeno.
E allora? Tutto risolto? Non proprio. La linea del fronte si è spostata ma c’è. E corre soprattutto nella costruzione di un testo, nella gestione di argomentazioni più o meno complesse, nell’uso appropriato del lessico, della sintassi. È lì che i limiti si vedono davvero: deficit di lettura, mancanza di preparazione, incapacità di modulare la lingua a seconda delle situazioni. Per rimediare a questo la grammatica da sola non basta, ovviamente. Ma è essenziale.