Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2016
L’incredibile ripresa irlandese che, a ritmi cinesi, sta riportando i conti sotto controllo
Commerzbank l’ha ribattezzata la Fenice che rinasce dalle sue ceneri. Una nuova metafora per celebrare la ripresa sempre più convinta dell’Irlanda, dopo gli anni seguiti all’esplosione della bolla immobiliare e al dissesto bancario e poi economico che l’avevano trasformata da Tigre celtica in Cenerentola d’Europa.
Appena cinque anni fa il Paese era costretto a chiedere aiuti internazionali per 67,5miliardi ed entrava in un piano di salvataggio triennale costato dolorosa austerity e povertà crescente; oggi – alla vigilia di un voto che, tra febbraio e marzo, sancirà il giudizio degli elettori sull’operato del governo – l’Irlanda si conferma l’economia a crescita più rapida dell’area Ocse, a ritmi “cinesi”, sta riportando i conti sotto controllo, ha ridimensionato la disoccupazione.
I punti di forza dunque sono molti, anche se restano alcune fragilità e qualche interrogativo legato agli scenari globali e alla direzione che prenderà la ripresa.
Nel terzo trimestre dell’anno scorso il Pil di Dublino è cresciuto del 7% rispetto allo stesso periodo del 2014: un trend che spinge ormai diversi analisti a prevedere che questa sarà la performance dell’economia per l’intero 2015, ben oltre il +6,2% che lo stesso governo aveva stimato a ottobre. Nel 2014 l’Irlanda era cresciuta del 5,2% e per il 2016 si prevede un incremento tra il 4 e il 5 per cento. Sono numeri importanti, sebbene qualcuno – tra gli altri l’ex governatore della Banca centrale Patrick Honohan – inviti a valutarli con cautela, visto il peso che su un’economia piccola come quella irlandese hanno le multinazionali. E bisogna tener conto che finora Dublino ha molto beneficiato dello stato di salute di Stati Uniti e Gran Bretagna, maggiori destinazioni del suo export
Analizzando le componenti della crescita, c’è però un’importante considerazione: a determinarla non è più solo l’export ma anche la domanda interna. Commerzbank nota che, mentre nel biennio 2011-2013 il surplus commerciale faceva da traino all’incremento del Pil e la domanda interna era un freno, negli ultimi due anni c’è stata una consistente ripresa dei consumi (le vendite di auto, per esempio, sono cresciute l’anno scorso del 30%) e, in parte, degli investimenti. Segnali di un’economia più equilibrata, capace di reggere meglio gli shock esterni.
Stando agli ultimi dati del Dipartimento delle Finanze, il deficit 2015 si attesterà al 2,1% del Pil, oltre 12 punti percentuali in meno del 2009, picco negativo della crisi. Il debito rimane alto (al 97% del Pil) ma è comunque calato di 23 punti rispetto al 2012 e, soprattutto, lo ha fatto molto più rapidamente del previsto.
I risultati ottenuti sul fronte del deficit sono frutto in primo luogo dei robusti tagli alla spesa di questi anni (oltre 30 miliardi), ma anche del gettito fiscale superiore alle attese, in particolare la corporate tax che Dublino ha mantenuto al 12,5 per cento. Grazie ai buoni risultati e all’extragettito (3 miliardi più del previsto nel 2015) il governo ha potuto varare un budget espansivo, con un inevitabile occhio alle elezioni: prima una riduzione delle tasse, poi un aumento della spesa. E qualcuno ha iniziato a storcere il naso.
Il Fiscal Advisory Council, l’authority indipendente istituita nel 2011 per monitorare la politica di bilancio, ha messo in guardia dall’utilizzo di entrate inattese per finanziare incrementi permanenti della spesa, una scelta – sottolinea il Consiglio – «che riecheggia errori passati e va contro i nuovi criteri di bilancio». Di altro segno la critica del mondo del business, con l’Ibec, la principale associazione imprenditoriale, che invita piuttosto a impiegare quelle risorse per incrementare gli investimenti, pubblici e privati: abitazioni, strade, trasporto pubblico, istruzione, sanità.
L’attrattività fiscale che Dublino ha saputo mantenere, con misure vecchie e nuove (per esempio l’istituzione di un regime fiscale agevolato, al 6,25%, sui ricavi da royalties), ha permesso al Paese di restare calamita per gli investimenti diretti esteri, con la conseguente creazione di posti di lavoro: 136mila nel settore privato dal 2012. In questo modo anche la disoccupazione, che aveva toccato il 15%, è scesa l’anno scorso al 9,5 per cento.
In un quadro ampiamente positivo come quello tratteggiato restano tre criticità. La prima è il settore bancario. I bilanci si sono nettamente ridimensionati rispetto agli anni precedenti il crollo (dall’800% del Pil al 300%) e si ha la sensazione di una maggiore solidità, grazie alle fusioni, che hanno portato da cinque a tre i principali istituti, e all’introduzione di requisiti di capitale più stringenti. Resta il credit crunch: il credito a famiglie e imprese continua a calare o non riparte, pesando soprattutto sulle imprese irlandesi.
La seconda incognita è Brexit: un’uscita della Gran Bretagna dall’Ue peserebbe sulla crescita irlandese e sul mercato del lavoro. L’interscambio tra i due Paesi ammonta oggi a circa 50 miliardi all’anno; secondo uno studio effettuato dall’Esri, think-tank di ricerca socioeconomica basato a Dublino, Brexit ridurrebbe gli scambi di un quinto, prima di tutto a causa della reintroduzione di barriere tariffarie. Le ripercussioni sul Pil sarebbero inevitabili. Quanto al mercato occupazionale, il ripristino di restrizioni nella libertà di spostarsi per motivi di lavoro in Gran Bretagna potrebbe far salire il tasso di disoccupazione (Londra ha sempre funzionato da valvola di sfogo, assorbendo forza lavoro irlandese in tempi di crisi) e calare i salari, dirottando verso l’Irlanda lavoratori Ue meno qualificati che oggi scelgono la Gran Bretagna.
L’ultima incognita sono le elezioni politiche, da fissare tra febbraio e marzo. I partiti oggi al governo sembrano destinati a pagare il pedaggio politico dei sacrifici imposti negli anni di crisi. Anche se secondo gli ultimi sondaggi la coalizione è in ripresa (il Fine Gael, centrodestra, al 31% e i laburisti all’8% dei consensi), rimane 16,5 punti percentuali al di sotto del risultato del 2011. Sono calati soprattutto i laburisti, scavalcati a sinistra dai nazionalisti del Sinn Fein, paladini dell’anti-austerity. Un cambio di maggioranza che dovesse includerli potrebbe rimettere in discussione molte cose.