Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2016
«Mettiamoci d’accordo sin d’ora, a carte coperte, su che cosa possa ragionevolmente essere considerato una svolta per l’economia italiana. Buon Anno». I quattro test per il 2016 di Ricolfi
C’è chi dice che la svolta non c’è ancora stata, c’è chi dice che invece sì, l’Italia con il 2015 ha voltato pagina. Naturalmente la risposta alla domanda sulla svolta dipende da quel che si intende per svolta o, se vogliamo essere cattivelli, dal modo in cui si manipolano i dati per ottenere la risposta che si desidera.
E allora vorrei fare una proposta in vista del Natale 2016, quando ci ritoccherà sentire amici e nemici del governo appassionarsi sulla “svolta”: mettiamoci d’accordo sin d’ora, a carte coperte, su che cosa possa ragionevolmente essere considerato una svolta per l’economia italiana. E poi aspettiamo, tranquilli, senza pregiudizi positivi o negativi, di vedere come saranno andate le cose alla fine dell’anno che ora inizia. Così eviteremo lo stucchevole spettacolo messo in scena in questi giorni, con (presunti) gufi e instancabili laudatori del governo inchiodati alle rispettive parti in commedia.
Stabilire che cosa possa essere considerato segnale non equivoco di una svolta non è facile per due ragioni distinte. La prima è che alcuni cambiamenti, ad esempio una drastica riduzione della spesa pubblica, possono essere giudicati positivamente da alcuni, negativamente da altri. La seconda è che altri cambiamenti, pur essendo auspicati da tutti, sono difficili da valutare in modo accurato ed obiettivo (è il caso dell’efficientamento della Pubblica Amministrazione). Quello di cui avremmo bisogno è un piccolo numero di test che vertano su questioni importanti, e al tempo stesso non abbiano né il difetto di essere ambivalenti (come la riduzione della spesa pubblica) né il difetto di essere poco obiettivi.
Ed ecco una modesta proposta.
Per me, alla fine del 2016, di svolta potremo legittimamente parlare se e solo se l’economia italiana avrà superato i quattro test seguenti.
Test numero 1. Un ritmo di aumento dell’occupazione superiore a quello, decisamente modesto, fatto registrare nel 2015.
Test numero 2. Una diminuzione del tasso di occupazione precaria, ossia della percentuale di lavoratori a tempo determinato sul totale dei lavoratori dipendenti (uno degli obiettivi perseguiti con il Jobs Act).
Test numero 3. Un aumento del Pil non inferiore a quello medio dell’Eurozona.
Test numero 4. Una diminuzione del rapporto debito/Pil che, lo ricordiamo, è il grande tallone d’Achille dell’Italia sui mercati finanziari, ovvero ciò che rende il nostro Paese vulnerabile agli attacchi della speculazione.
Credo che, pur non essendo gli unici test concepibili, sia difficile negare la ragionevolezza di questi quattro obiettivi. Se venissero tutti o quasi tutti raggiunti, sarebbe difficile negare la svolta. E se venissero tutti o quasi tutti mancati, sarebbe difficile negare il sostanziale fallimento della politica economica messa in atto.
Ma si tratta di obiettivi facili o difficili?
A mio parere si tratta di obiettivi tanto ovvi quanto di non facile conseguimento, e provo a spiegare perché. Tanto per cominciare, val forse la pena notare che, nel corso dell’anno appena concluso, nessuno di essi è stato raggiunto. Se, in altre parole, proviamo ad applicarli al 2015 in rapporto al 2014 otteniamo i seguenti risultati.
Test 1. Secondo i dati ufficiali Istat a oggi disponibili (gennaio-ottobre 2015) il ritmo medio di incremento dell’occupazione nel 2015 è stato di appena 8.300 unità al mese, contro le 13.800 del 2014, e questo nonostante la spinta della decontribuzione e del Jobs Act; c’è da chiedersi che cosa possa accadere nel nuovo anno, con la drastica riduzione della decontribuzione prevista dalla Legge di stabilità.
Test 2. Secondo l’ultima indagine trimestrale dell’Istat (3° trimestre 2015) nel corso del 2015 il tasso di occupazione precaria non è affatto diminuito, ma è anzi un po’ aumentato (dal 13,4% al 14,0% su base annua), e nell’ultima rilevazione trimestrale ha toccato il massimo storico (14,9%) da quando il dato viene rilevato, ossia dal 1992.
Test 3. Da oltre vent’anni, il tasso di crescita dell’Italia è di circa 0,7-0,8 punti percentuali più basso di quello dei Paesi dell’Eurozona, e l’anno appena trascorso non ha fatto eccezione: nel 2015 noi siamo cresciuti dello 0,8%, l’Eurozona dell’1,6%, ossia dei soliti 0,7 o 0,8 punti percentuali più di noi.
Test 4. Nel 2015 il rapporto debito/Pil dell’Italia è aumentato rispetto al livello dell’anno precedente, passando dal 132,1 al 132,8%. Anche qui siamo a un massimo storico, questa volta dal 1925, visto che è disponibile la serie dall’Unità d’Italia a oggi.
Fra tutti e quattro i test, quest’ultimo a me pare il più difficile da superare. Il governo ha annunciato, e più volte ripetuto, che nel 2016 il rapporto debito/Pil dell’Italia “finalmente” comincerà a scendere. Non occorre essere particolarmente scettici (qual io sono per natura) per rendersi conto che non sarà facile. Per capire come mai, basta ricordare che la condizione contabile perché il rapporto debito/Pil si abbassi è che il tasso di crescita del Pil nominale sia maggiore del tasso di crescita dello stock del debito pubblico. Nulla, al momento, suggerisce che tale condizione sia in procinto di realizzarsi. Il tasso di crescita del Pil nominale è minacciato dall’indebolimento della ripresa mondiale e dal livello ancora bassissimo dell’inflazione attesa nel 2016. Il contenimento del tasso di crescita del debito pubblico (che in questo momento sta ancora viaggiando più in fretta del Pil nominale) è minacciato dalla scelta del governo di coprire in deficit le nuove spese e il mancato aumento dell’Iva, un azzardo che ci potrebbe costare caro ove una nuova tempesta finanziaria dovesse abbattersi sull’Eurozona.
Ma possiamo forse escludere che le imprese più ardite possano avere successo?
Certo che no, quindi felice 2016 a tutti!