Il Sole 24 Ore , 3 gennaio 2016
Per l’Arabia Saudita una decapitazione è più importante di ogni possibile gesto di distensione con l’Iran e gli sciiti
Lo scisma tra i musulmani consumato con la battaglia di Kerbala nel lontanissimo 680 vale ancora una guerra dopo quelle combattute negli ultimi tre decenni? Per l’Arabia Saudita una decapitazione è più importante di ogni possibile gesto di distensione con l’Iran e gli sciiti. E se la situazione dovesse precipitare chiederà agli Stati Uniti di schierarsial suo fianco, come del resto avviene regolarmente dal 1945 per il patto leonino firmato tra Roosevelt e Ibn Saud?
Riad mette così alla prova Teheran ma anche Obama che ha voluto l’accordo sul nucleare con l’arcinemico iraniano.
È questo il messaggio inviato da Riad con le 47 esecuzioni di ieri tra cui quella dello sceicco sciita Nimr Baqr al Nimr. L’equazione per i Saud è chiara: sciiti uguale a terroristi, e così è stato recepito dalle reazioni furibonde del mondo sciita. Un paradossale contributo al dialogo di un Paese che da lunedì capeggia un comitato di esperti Onu per i diritti umani.
Il conflitto sciiti-sunniti non è più una guerra circoscritta al Siraq. Arabia Saudita e Iran, le due potenze rivali del Golfo sono ai ferri corti, anzi cortissimi, e l’Occidente non è solo uno spettatore interessato ma insieme alla Russia, alleata di fatto di Teheran, uno degli attori protagonisti. Le portaerei americane e francesi incrociano nel Golfo, la Marina da guerra russa solca il Mediterraneo, i cieli sono sorvolati dai caccia di Mosca e della coalizione occidentale anti-Isis, i Pasdaran iraniani sono in allerta con il loro arsenale missilistico. È in questo scenario bellico che i sauditi, mulinando la scimitarra del giustiziere, hanno lanciato il loro missile virtuale.
È evidente che il primo bersaglio è l’Iran, grande protettore degli sciiti. Il secondo sono ribelli Houti dello Yemen sostenuti da Teheran, contro i quali Riad sta conducendo un conflitto che è diventato una sorta di Vietnam arabo. Ma le reazioni sciite, dal Bahrein dominato dai sunniti Al Khalifa al Libano degli Hezbollah, dall’Iraq del governo di Baghdad al lontano Kashmir indiano, dimostrano che si va ben oltre i labili confini mediorientali.
Con queste esecuzioni Riad invia un messaggio alla comunità internazionale che accusa non troppo velatamente la casa saudita di avere incoraggiato con la sua ideologia religiosa i gruppi jihadisti. Il Califfato non è un alleato di Riad ma lo sono molti gruppi radicali nel campo di battaglia siriano e iracheno. Ed è per questo che l’Arabia Saudita prima ha convocato i gruppi dell’opposizione e poi ha fondato una pletorica “santa alleanza” di stati sunniti che in realtà appare come una coalizione cosmetica, dalla quale alcuni come il Pakistan si sono già sfilati. Le condanne a morte devono irrorare con il sangue il nuovo ruolo saudita anti-terrorismo.
Tutto questo coincide con un fase assai delicata: il governo di Baghdad, dove i sauditi hanno appena riaperto dopo 25 anni l’ambasciata, è chiamato alla gestione della riconquista di Ramadi, un momento chiave per tentare di ricostruire la fiducia tra sciiti e sunniti. Non solo: si avvicina l’apertura del negoziato Onu sulla Siria dove una delle questioni principali sarà proprio la rappresentanza al tavolo dei gruppi sunniti. E per Teheran si avvicina la fine delle sanzioni, forse l’unico freno a una reazione feroce degli iraniani.
Il jihadismo doveva essere nei piani delle potenze mediorientali, come Turchia e Arabia Saudita, lo strumento per abbattere il regime di Damasco e modificare i confini della Siria di Assad e quelli dell’Iraq sciita: ora, oltre a essere un incubo per l’Europa, appare l’avanguardia della loro stessa disgregazione sul fronte interno ed esterno perché i jihadisti perderanno o comunque non vinceranno la guerra contro gli sciiti, come già accadde a Saddam Hussein negli anni ’80 dopo l’attacco all’Iran. Sulla mappa ci sono entità vacillanti che gli Stati Uniti hanno incoraggiato passivamente e attivamente verso una deriva bellica e sempre più autoritaria.
E più queste entità si mostrano aggressive, come la Turchia di Erdogan e la Casa reale dei Saud, e maggiormente dimostrano la loro fragilità, sulla questione araba, curda e delle minoranze religiose e politiche. Sono in fibrillazione interna, senza confini sicuri, in parte fuori controllo, nel pieno di un crisi dei prezzi petroliferi che gli stessi sauditi hanno scatenato, e si sentono minacciate nella loro esistenza. Ecco perché questi giochi sanguinosi sono diventati senza frontiere, in Medio Oriente e in Europa.