La Lettura - Corriere della Sera, 4 gennaio 2016
Cinquant’anni senza Buster Keaton
Mai giocare a poker con Buster Keaton. Sul «New York Times» di mercoledì 2 febbraio 1966 apparve l’annuncio della morte per un cancro al polmone di Keaton, detto il poker faced comic, il comico dall’espressione imperscrutabile, ideale per le carte; aggiungendo poi che era il tipo d’uomo che i cani godono a morsicare. Il 1° febbraio 1966 ci lasciò infatti, trovando finalmente il buco dell’uscita, dopo anni non proprio analcolici (nel ’35 va a disintossicarsi in clinica, segue ricovero in psichiatria), in preda alla depressione classica dei comici, un grandissimo come Buster Keaton.
Era detto Stone Face, faccia di pietra, artista lunare impassibile che per contratto con la Mgm non poteva ridere. Serio come la miseria, dicevano. Anche solo un sorriso gli avrebbe causato gravi penali, perché proprio la sua serietà antisentimentale provocava la risata: in Io e il ciclone subisce impassibile e senza controfigura la casa che si abbatte su di lui. Gli studios non scherzavano sulle clausole, anche la Garbo per ridere dovette aspettare Ninotchka. Greta e Buster sono stati infatti accostati spesso per la misteriosa intensità espressiva dei volti che sfidava la lunghezza dei primi piani. «Se avessi riso io di quello che facevo – spiegò l’attore – non avrebbe riso il pubblico».
Buster, come rompicollo, soprannome donatogli dal mago Houdini, dopo che lo vide salvarsi neonato di sei mesi da una caduta per le scale nel corso del numero di music hall in cui i genitori se lo lanciavano come un pallone da rugby. Keaton, in scena quando aveva tre anni, fu autore-attore di titoli memorabili: La palla n. 13, Poliziotti, The General, nome della locomotiva che sfreccia nella guerra civile, Il cameraman, Tuo per sempre, Le 7 probabilità, dove ha mezza giornata per trovare moglie, Il navigatore, in cui usa un’aragosta come tenaglia: corti, medi, lunghi muti prima della rivoluzione del sonoro.
Del suo mutismo esistenziale, naturale, si parlò – prima dei film biografici The Buster Keaton Story di Raymond Rohauer e Buster Keaton Rides Again di John Spotton – come anticipo inconsapevole profetico di giorni che l’arte intuiva sarebbero stati infelici. Il suo cinema fu un corpo a corpo con la logica andando a piccoli passi verso un tipo di follia contagiosa. Non a caso Keaton, un anno prima di morire, sedusse l’irlandese anch’egli muto e senza sorriso Samuel Beckett, che scrisse sulle sue misure quasi un testamento ad personam, agganciando due mutismi complementari e opposti ( Film di Alan Schneider, presentato a Venezia nel 1965).
La tipologia Keaton è sempre stata quella del fallito, un perdente contro cose e persone, armato solo di sense of humour, occhi a palla da troppi psicofarmaci sotto una sottile paglietta che accentuava il grottesco assurdo del profilo. Ma senza mai chiedere complicità, senza giocare la carta del patetismo né dichiarare la propria posizione di vittima, come faceva invece Charlot con cui condivideva lo status sociale artistico di tramp, vagabondo. Del «kansasiano» Joseph Francis Keaton, nato a Pickway addì 1895, coevo del cinema, speciale nell’esprimere l’inespressività, da sempre si discute, ci si divide e poi si patteggia se sia stato pari o perfino migliore di Chaplin, complice e rivale di comiche, vaudeville e music hall che gli sopravvisse undici anni e morì nel ’77, la notte di Natale.
Dopo anni di teatro, il primo corto fu Il garzone di macelleria, 1917, diviso con Fatty, popolare ciccione delle comiche (a processo per morbosi vizi privati): come Stanlio e Ollio, Gianni e Pinotto, uno era grande e grosso, l’altro l’opposto, smunto e serioso, acrobatico più di Harold Lloyd. Insieme, mettono a segno gag inesorabili. I comici lavorano spesso in coppia, si studiano poi si sfidano: Buster Keaton con Chaplin partner e regista, due miti, girarono nel ’52 Luci della ribalta, storia londinese di un clown, Calvero, che s’innamora d’una ballerina depressa: il finale di partita che Chaplin condivide con Buster, due sopravvissuti, finendo tragicamente nella buca dell’orchestra, è un pezzo di eternità del cinema. «È stato un pretesto per rimpiangere la giovinezza» disse Keaton, uomo di gag e di circo (fu al Modiano di Parigi).
Aveva solo 71 anni quando morì dopo aver dedicato la carriera a dimostrare come tragico e comico siano due gemelli monozigoti, pagando di persona anche conseguenze nevrotiche pesanti: diceva che la tragedia è un primo piano e la commedia un campo lungo. Geniale. Ma non recapitava messaggi: in questo caso, diceva Proust, è come un regalo con attaccato il cartellino del prezzo. Al fianco di Keaton c’era solo una vena paradossale, fantastica, surreale, egocentrica, che gli permise di parodiare perfino Intolerance di Griffith. Il suo declino fu dovuto, come per molti grandi del muto, all’avvento del sonoro, osteggiato anche da Charlot, perché Buster amava il silenzio, come Jacques Tati, che gli verrà accostato. Amava gli atti senza parole dove spiegava con occhi e corpo smontabili le regole per perdere sempre di fronte a un mondo che non era più e forse non era mai stato a misura d’uomo.
Non prese premi, ma nel 1960 Keaton vinse finalmente l’Oscar onorario alla carriera: nel 1961 fu la volta di Stan Laurel, nel ’72 di Chaplin esiliato di ritorno, tre goffe riparazioni di tre gaffe imperdonabili. Fece intanto camei indimenticabili e disordinati in kolossal come Q uesto pazzo pazzo pazzo pazzo mondo, Il giro del mondo in 80 giorni e poi Viale del tramonto ( as himself, come se stesso) e il musical Dolci vizi al foro.
Oggi che si «festeggiano» i 50 anni della sua morte (perché il cinema è un presente storico infinito) pochi ricordano che Buster aveva accolto – bisognava pur sopravvivere – un’àncora di salvataggio italiana recitando con Franchi e Ingrassia (Due marines e un generale, ’65) e con l’ex maggiorata Silvana Pampanini ( L’incantevole nemica, ’53), mattatore di uno sketch «contro» un impasto di pane. Ma ancora più incredibile e stravagante fu la sua apparizione, in carne (poca) e ossa, sulla passerella rosso délabré del Puccini di Milano, consunta dai tacchi a spillo delle soubrettine; estate del ’53 nello show Il piccolo Naviglio di Silva e Terzoli, da un programma radio, accanto alla coppia milanese Fausto Tommei ed Elena Borgo e al trio giovane Gino Bramieri, Ettore Conti e Gianni Cajafa, pronti al salto nella rivista. Lo si vede in una foto quasi scheletrico, alla Eduardo, vicino ai ragazzi.
Quel comico che faceva ridere perché sembrava (forse era) disperato, lo ricordavano bene gli spettatori scamiciati del Puccini che fumavano e si facevano aria col giornale: con la sua giovane moglie era nello sketch di quello che torna a casa ubriaco e non riesce a infilarsi nel letto, mezz’ora di gag senza una battuta, con giacca lunghissima e maglietta colorata. Non era strano trovarlo in un teatro, che fu da subito la sua culla, la sua radice; strano era imbattersi in quel volto che il cinema aveva reso mitico in uno dei templi dell’avanspettacolo, come imbattersi in Charlot all’Alcione o Lloyd allo Smeraldo. Una sera Enzo Biagi, con Guareschi e Dino Falconi, andò a trovarlo in camerino e poi ne scrisse. Keaton raccontò: «Non ho pretese. Sono venuto al mondo in un palcoscenico di periferia: sono stato giocoliere, ballerino, prestigiatore, gli alti e bassi mi hanno insegnato a non essere difficile».