Libero, 2 gennaio 2016
«Ma questa è arte?». Il libro che risponde a questa domanda
Biennale di Venezia, 1962: durante l’inaugurazione del presidente della Repubblica, l’artista Alberto Greco da una gabbietta libera dei topi che prendono a correre tra la folla generando il panico. Dieci anni dopo Hans Hollein, professore dell’accademia di Dusserdolf, alla XXVI edizione presenta l’opera Santuario: un piccolo capanno di frasche contenente un pollo morto. Quello stesso anno Gino De Dominicis espone l’ormai celebre portatore di handicap: un ragazzo di 27 anni incontrato dalle parti del Castello di Venezia messo in mostra con al collo un cartello che rivelava il titolo dell’opera: Soluzione di immortalità. Nel 1997 Marina Abramovic si esibisce in Balkan Baroque: l’artista sta seduta su una montagnetta di ossa bovine e le pulisce con una spazzola. Sono ossa appena spolpate e ancora maleodoranti: l’intenzione è quella di rappresentare l’atrocità del conflitto balcanico. E viene premiata. E ancora: nel 2004 Maurizio Cattelan appende all’albero di Porta Ticinese a Milano tre manichini-bambini vestiti di tutto punto con gli occhi spalancati.
Di fronte a tutto ciò in molti si chiedono: «Ma questa è arte?». A questa domanda risponde il libro L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria (Guerini, pp. 170, euro 16,50) nel quale l’autore, Pierluigi Panza, cerca di spiegare le dinamiche del mondo dell’arte per sottolineare come il successo di alcune attuali proposte post-estetiche sia determinato dal potere finanziario e della comunicazione.
L’analisi muove dalla considerazione che l’arte è un conferimento di valore su un oggetto creato con intenzionalità artistica. Conferimento che oggi non è determinato dal giudizio critico-valutativo o da un soddisfacimento popolare (se non indotto), bensì sulla base di una costruzione del consenso tesa a creare un capitale di visibilità sull’artista o sull’opera che è elemento economico determinante in questa fase del Capitalismo estetico.
Panza sottolinea come l’arte, dopo aver attraversato la stagione della sua riproducibilità tecnica descritta nel 1936 da W.Benjamin, è entrata negli ultimi decenni nell’era di una sostanziale riproducibilità finanziaria. «L’opera», scrive l’autore, «oltre ad essere chiave d’accesso all’elite postmoderna, è diventata come un derivato finanziario, come un future. Ovvero una scommessa sul futuro, come l’acquisto di oro e petrolio. Chi ha acquistato negli ultimi anni la cosiddetta arte contemporanea, non ha acquistato un’opera con un suo valore estetico: ha acquistato una scommessa di tipo simbolico, come in borsa, su un segno». Questo processo di finanziarizzazione iniziò con Andy Warhol negli anni Settanta, quando l’idea di produzione dell’arte prevalse sull’idea di creatività. Il pop utilizzò direttamente prodotti commerciali o note immagini pubblicitarie e fece della serialità un’arma commerciale come l’industria dei normali prodotti. Oggi, fa notare Panza, per un artista è più importante mettersi in scena che produrre opere: «Questa è una caratteristica ricorrente del Capitalismo estetico dove le merci vengono spettacolarizzate per valere e valgono in relazione al capitale di visibilità che il creatore ha acquisito». In questo meccanismo di costruzione del consenso un ruolo importante è anche quello dei critici. Sono la «pedina nobile» all’interno di uno scacchiere governato da altri poteri, scrive Panza ricordando che al successo di artisti come Cattelan, Koons o Pistoletto fa riscontro quello di critici come Vittorio Sgarbi, Achille Bonito Oliva: oggi, anche al critico è richiesta la disponibilità di mettersi in gioco, a sapersi spettacolarizzare.
La conclusione è che l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria si dimostra come un caso di eterogenesi dei fini.