Libero, 2 gennaio 2016
Donald Trump non ha bisogno di chiedere un dollaro per la sua campagna
Donald Trump ha abrogato la legge che ha sempre governato le primarie presidenziali, quella che misura le potenzialità dei candidati sul metro del soldi elargiti dai grandi finanziatori individuali e dai SuperPac, i Comitati politici che possono raccogliere somme senza limiti e «affiancare» le campagne dall’esterno senza coordinarsi con loro. Quando era sceso in campo in giugno l’imprenditore di New York aveva preso l’impegno di investire solo soldi suoi, al limite accettando i contributi legali individuali minimi «per non essere condizionato da nessuno». E, in ottobre, ha costretto i SuperPac, che erano stati costituiti dai fans contro la sua volontà, a sciogliersi, e a restituire il denaro raccolto.
Questa strategia è stato il modo più convincente per dire al pubblico, stanco degli intrallazzi delle lobby di Washington, che lui, Trump, è «one man party», «un uomo partito», anche dopo aver firmato a fine estate la dichiarazione di lealtà al GOP. E questa «indipendenza assoluta» illustra meglio di ogni discorso la natura della squadra con cui il miliardario delle case e della Tv punta alla nomination. Impensabile è cercare un «cervello» dietro Donald, uno del tipo di Karl Rowe per George Bush o di David Axelrod per Obama, due animali politici dalle ideologie nette e opposte, conservatrice e progressista. Trump, anche se oggi veste la casacca repubblicana, è stato democratico in passato, e nella campagna non ortodossa ha già mostrato la sua «flessibilità», per esempio sui patti di libero commercio e sulla politica verso Putin, che scandalizza i rigorosi conservatori dell’establishment. È una «non linea» che richiede collaboratori della stessa pasta, nella triade di supporto famiglia-azienda-partito, in questo ordine non casuale.
IL FATTORE IVANKA
Ivanka Trump, figlia secondogenita della prima moglie Ivana, ha introdotto alla stampa il babbo nel giorno dell’annuncio nella sede della Trump Organization, e da allora ha sempre svolto il ruolo di sostegno aperto, ma non sguaiato. Anzi, nell’articolo «Il quieto potere dietro il trono di Trump» che le ha dedicato Politico.com, è presentata come «la consigliera del padre più influente, la sua più potente surrogata (si dice di chi parla per conto di un candidato NDR)…, e il suo opposto totale». Amica personale di Chelsea Clinton, Ivanka è leale con il patriarca e non interviene mai nelle polemiche più brucianti che scatena: «Sono una donna d’affari (ha 34 anni, è mamma, ed è laureata in economia con Master alla Wharton School presso la Penns University NDR), quindi lascio la politica agli altri membri della famiglia e ai molti che sono coinvolti nella corsa su entrambi i fronti», dice. Ma del padre, ammettendo che «è brusco», agli eventi della campagna elogia sempre la «brillantezza, la passione, l’etica per il lavoro e il rifiuto di prendere il “no” come una risposta». E comunque, nelle rare occasioni in cui interviene su temi specifici, è sempre per affermare di essere pro-donne e pro-business. Nei prossimi mesi, pure sua madre Ivana avrà un ruolo più visibile, ha promesso Trump, che già ora la considera «la sua sondaggista privata» per i pareri che gli dà.
Michael D. Cohen, uomo dell’azienda, è vicepresidente esecutivo e consigliere speciale nella Trump Organization, dove è entrato nel 2006 e di cui è l’esperto in affari legali; negli ultimi mesi è stato la «voce» del capo nelle interviste tv, durante le quali lo ha difeso dalle accuse più brucianti: tra l’altro, ha detto che Trump «ha una grande relazione con i Latinos» dopo la sua sparata contro il Messico che «ci manda gli spacciatori e gli stupratori». Cohen ha corso come consigliere comunale di New York nel 2003, su invito dell’allora governatore repubblicano George Pataki, ed è stato iscritto al partito democratico, votando Obama nel 2008. E sempre dall’azienda di Trump, dove lavora dal 2001, proviene Amanda Miller, responsabile del marketing.
IL TEAM
Corey Lewandowski, il professionista, è il manager ufficiale della campagna: laureato in Scienze Politiche a Lowell (Massachusetts) con Master presso la American University, ha fatto l’aiuto per la campagna del democratico Steven Panagiotakos per il posto di senatore dello Stato del Massachusetts e poi per Peter Blute, che è stato l’ultimo deputato repubblicano al Congresso di Washington eletto in quello Stato. Ha lavorato per i repubblicani Bob Ney in Ohio e, come manager della campagna, per il senatore del New Hampshire Robert C. Smith, prima di entrare nel Comitato Nazionale Repubblicano, che ha lasciato nel 2011. Lewandowski ha conosciuto Trump nel 2014 a un evento politico in New Hampshire: sei mesi prima dell’annuncio ufficiale è stato convocato alla Trump Tower sulla Quinta Strada e ha accettato l’offerta di essere il Manager della campagna.
Le primarie sono una gara a eliminazione condotta su base statale, e quindi la cerchia dei collaboratori dei candidati che avanzano si allarga di consulenti e professionisti della politica che cambiano cavallo quando restano disoccupati per l’abbandono dei primi «datori di lavoro», oppure che sfruttano le passate esperienze. Sam Clovis era stato manager di Rick Perry in Iowa, per esempio, ed ora è il chairman statale per Trump. Mentre il tesoriere attuale della campagna di Trump, Tim Jost, era stato consigliere finanziario di Romney nel 2012.
Sono personaggi che salgono sul carro del Donald come indispensabili pedine organizzative, centrali o statali, ma i posti del padrone del team, e il rango dei suoi più fidati collaboratori personali, sono tutti assegnati.