Libero, 4 gennaio 2016
Le prime rockstar furono i violinisti
Violinisti come rockstar e il violino come strumento del demonio. La Chiesa che ne ordinò la distruzione e le folle che accorrevano al cospetto dei primi, timidi virtuosi. Il primo fu senz’altro Arcangelo Corelli, un romagnolo considerato tra i più importanti compositori dell’età barocca e che diede un contributo fondamentale allo sviluppo del cosiddetto “concerto grosso”.
Ma fu il veneto Giuseppe Tartini, dopo di lui, a rafforzare l’immagine dei violinisti in combutta con Satana. La sua storia è suggestiva. Figlio di un nobile religioso, a Tartini fu impartita un’educazione ecclesiastica anche se abbandonò presto ogni proposito di indossare l’abito talare; cominciò a studiare e a insegnare il violino ancorché le sue vere abilità fossero tirare di scherma e ficcarsi nei guai: meno che ventenne sposò segretamente una sua allieva che aveva però il difetto di essere figlia di un dipendente dell’arcivescovo di Bologna, il cardinale Giorgio Cornaro, uno che certo non vedeva quelle nozze di buon occhio.
Perseguitato, il ragazzo dovette abbandonare Padova e rifugiarsi in un monastero di Assisi dove la serenità della vita monastica lo condusse tipicamente a un cambiamento caratteriale: gettò la spada e imbracciò il violino. Prese a suonare durante le messe celebrate ma celato dietro una tenda, così che eventuali emissari del cardinale non potessero riconoscerlo. Leggenda vuole che una folata di vento vanificò il mascheramento, ma che tutto finì bene: il cardinale Cornaro frattanto si era ammorbidito e così diede il consenso al matrimonio galeotto. Tartini riprese a vivere come una persona normale.
A Cremona scovò Antonio Stradivari e gli divenne amico. Comprò uno strumento magnifico, poi noto come Lipinski, e si avviò a divenire il più grande violinista del suo tempo. La sua composizione più celebre, però, è legata a un racconto reso noto nel 1769: «Una notte del 1713 sognai di aver fatto un patto col diavolo. In cambio della mia anima, tutto sarebbe andato secondo i miei ordini. Il mio nuovo servitore anticipava tutti i miei desideri. Pensai di passargli il mio violino per vedere come se la cavava, e grande fu il mio stupore quando sentii una sonata così unica e bella, eseguita con una tale superiorità e intelligenza che non avevo mai udito nulla di simile. Non avevo mai neppure immaginato che potesse esistere una musica così incantevole. Provai un senso di piacere – di rapimento, di sorpresa – talmente intenso che mi sentii mancare il respiro: la forza di questa sensazione fece sì che mi risvegliassi all’improvviso. Il pezzo che composi, e che chiamai “Il trillo del diavolo”, è di fatto il migliore che io abbia mai scritto, ma non è neppure lontanamente paragonabile a ciò che avevo ascoltato in sogno».
Ma il primo e autentico virtuoso dell’archetto fu Giovanni Battista Viotti, un piemontese che cambiò per sempre il modo di suonare il violino. La sua tournée europea fu sfolgorante. Quando passò da San Pietroburgo – Viotti era un bell’uomo, elegante e affascinante – non poté sfuggire alla cinquantenne Caterina la Grande, la cui predilezione per i giovincelli era ben nota; l’imperatrice era legata al poco più che ventenne Aleksandr Lanskoj, ma l’infedeltà per lei non era mai stata un problema. Il rapporto durò qualche tempo. Non era la prima volta che Caterina amoreggiava con un musicista italiano: aveva già avuto una relazione col violinista Antonio Lolli prima che un epilogo tragicomico mandasse tutto all’aria.
Il capo della polizia zarista, infatti, aveva frainteso un ordine di Caterina affinché il cocker spaniel di corte, chiamato Lolli pur esso, fosse impagliato e conservato in una teca di vetro. Chiarito l’equivoco, Lolli – Antonio – se l’era comunque data a gambe. Viotti, nel marzo 1782, decise di passare per Parigi. Quando si seppe che avrebbe suonato al celebre Concert Spirituel, il principale palcoscenico dell’epoca, il pubblico sciovinista affilò per bene i coltelli: i parigini erano profondamente diffidenti verso i musicisti del Belpaese e figurarsi verso il violino, strumento italiano per definizione. Il conservatorismo francese non aveva retto il passo dei Corelli e dei Tartini, ma Viotti ruppe l’argine e paralizzò il Concert Spirituel con la ricchezza espressiva del suo immancabile Stradivari. Il suo stile fu presto imitato dai violinisti di tutta Europa.
L’italiano fu il primo a usare l’archetto ideato da François Tourte – più o meno identico a quello usato oggi – e la sua fama si eclissò soltanto nei giorni della Rivoluzione francese, quando il suo nome finì sul libretto dei nemici del popolo e rischiò di essere decapitato. Dovette fuggire a Londra.
Ma sin qui abbiamo scherzato, ci siamo fermati alla preistoria del virtuosismo: sono facezie in confronto all’apparizione di una figura che resta inspiegabile al di là di ogni leggenda, di ogni furore ottocentesco, dei fiumi di parole che furono usati per descriverla. Parliamo di Niccolò Paganini, i cui concerti furono particolari da subito: suonava quasi sempre melodie di sua invenzione (quelle d’altri le copiava e storpiava, vi improvvisava sopra come un jazzista) e ogni volta giocava col pubblico, l’ipnotizzava, imitava il verso degli animali e produceva suoni comunque incredibili. Paganini sembrava nato per il violino. Aveva un orecchio assoluto e doti naturali combinate in maniera irripetibile, leggeva la musica a prima vista, accordava con un sistema tutto suo e con precisione elettronica, vantava interi repertori basati su una corda sola, con due dita intonava una melodia e con le altre l’accompagnava, così che i musicisti sembravano tre. In sostanza ebbe a inventare tutti gli espedienti che compongono il bagaglio del violinista moderno: mulinelli, scale picchettate, guizzi dall’alto al basso, passaggi tecnici che nel caso della sua letteratura – si pensi ai celebri Capricci – rimangono irripetibili perlomeno con la pulizia e la velocità che prevedevano.
Solo i progressi della tecnica strumentale avrebbero permesso a pochi violinisti di cercare di emularlo. È la conformazione fisica di Paganini a essere irripetibile: le spalle strette ma forti, il tronco gracile, le braccia smisurate, le dita a ragno, una spalla più alta dell’altra a furia di suonare con lo strumento rivolto verso il basso, all’italiana, alla Paganini. Per non parlare della sua mano sinistra, oggetto di studi anche ridicoli e farlocchi: è perlomeno assodato che il violinista era in grado di flettere lateralmente le falangi delle dita e di piegare il pollice sul dorso della mano sino a fargli toccare il mignolo; arrivava a coprire tre ottave di violino e si è ipotizzato che la sua straordinaria duttilità fosse favorita anche da qualche particolare malattia (sindrome di Marfan, sindrome di Ehlers-Danlos) per quanto resti probabile che a facilitare l’eccezionale elasticità dei suoi legamenti sia stato l’esercizio cui si sottopose sin dall’infanzia.
Il mantenimento di questa flessuosità, secondo testimonianze anche dirette, erano ore di pratica quotidiana che la vanità di Paganini tendeva a negare. I suoi concerti erano carissimi ma poi la gente impazziva: capitava che l’orchestra smettesse di suonare e si unisse al pubblico per applaudirlo. Le scene di isteria si moltiplicarono. La folla, dopo l’esibizione, lo seguiva sino all’albergo, mentre le gazzette non potevano sottacere il fascino che esercitava sugli uomini ma soprattutto sulle donne: e tante ne ebbe, anche famose, anche celebri. Si diceva che Elisa Bonaparte «cadesse talvolta in svenimento al suonare di Paganini». Si mormorava che anche la sorella Paolina Borghese, già libertina di suo, fosse caduta nella rete. Il tutto si mischiava a dissolutezze d’ogni sorta – Paganini era un affezionato fumatore d’oppio – che certo non scoraggiarono l’attrazione femminile verso di lui, tanto che non mancarono teorie che associano gli armonici del violino a cadute verticali delle inibizioni. Per scriverla come fece la Gazzetta di Genova: «Esercita un potere sì magico sugli uomini … Si presenta, si pianta in mezzo solo, e lo diresti un Apollo». Beh, non lo era. Per dirla con Jeanne de Valois, già contessa de La Motte: «Ero affascinata, non vedevo più la sua bruttezza, mi parve d’esser trasportata in un altro mondo».
Ma la prima e autentica rockstar della storia meriterà una trattazione a parte, perché la sua storia resta incredibile anche al saldo delle leggende. La racconteremo.