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 2016  gennaio 04 Lunedì calendario

«Occuparsi della morte significa occuparsi della vita. Per questo è necessario decidere sull’eutanasia». Un’intervista a Marco Cappato

In realtà, per impegni reciproci, non avevamo altro modo per incontrarci. Così Marco Cappato e io ci siamo visti il 31 dicembre. Il giorno in cui muore l’anno per parlare di morte. Che allegria.
Cappato è stato comprensivo e nonostante fosse ospite di amici in Versilia si è ritagliato due ore per la chiacchierata. Viene a prendermi nella piccola stazione sotto le Alpi Apuane e ci rintaniamo subito in un bar, lì a due passi. Fuori fa un freddo da lupi.
Marco ha il fisico dell’ex giocatore di basket, alto e dinoccolato. Ha i 44 anni di oggigiorno, ossia ne dimostra dieci di meno. Nella vita fa il radicale, la militanza è il suo lavoro. È stato due volte deputato europeo con la Lista di Emma Bonino, dal 1999 al 2009. In verità, nel 2004 era stato eletto a Montecitorio. Però due anni dopo, appena Bonino divenne ministro del governo Prodi, Cappato le subentrò a Strasburgo lasciando di corsa Roma. «Solita fobia antiromana, tipica del meneghino», gli dico sapendo che è nato e vive a Milano. Lui ride, poggia la tazza del cappuccino che si è ordinato, e replica serio: «Per me, il futuro della politica è nella dimensione transnazionale. L’Europa non le Nazioni». Infatti, oltre che ai Radicali Italiani è iscritto al Partito Radicale transnazionale. Non chiedetemi la differenza. Mai capita. Comunque, in entrambi ci sono sempre gli stessi, Marco Pannella, Bonino, Cappato ecc. Veniamo al dunque. Oggi, Marco è in veste di deus ex machina dell’Associazione Luca Coscioni, il ricercatore malato di sclerosi multipla che si batté per la libertà di ricerca sulle cellule staminali, un tabù per molti. Cappato ha conosciuto personalmente Coscioni e più tardi Piergiorgio Welby, affetto di distrofia. Si è progressivamente immerso nel tragico mondo dei malati inguaribili e nel 2006, fu al fianco di Welby che desiderava l’eutanasia. Dopo qualche mese di battaglie giudiziarie e scioperi della fame -la famosa disobbedienza civile dei radicali- riuscì a ottenere per Welby l’interruzione legale delle terapie, consentendogli di morire come chiedeva. Siccome però sono cose che lì per lì ti fanno pensare poi le dimentichi, Cappato ha deciso un giro di vite. Due anni fa, ha presentato una proposta di legge di iniziativa popolare (67 mila firme) per legalizzare il suicidio assistito. Poiché il Parlamento ha fatto l’anguilla e non l’ha presa in considerazione, ne ha pensata un’altra. Ha fondato da qualche settimana “Sos eutanasia”, ha creato un sito internet e promesso a chiunque cerchi la buona morte di pagargli il viaggio e la clinica svizzera che gliela procurerà.
È successo un putiferio.
«C’è stato un risveglio di attenzione. In poco tempo, una quindicina di persone si sono rivolte a me per chiedere informazioni».
Quante ne hai aiutate a morire finora?
«Nel corso degli anni, da quando mi occupo di eutanasia, una novantina. Gente che mi ha chiesto aiuto. Non so quanti poi abbiamo effettivamente dato seguito».
Che fai quando si rivolgono a te?
«Finora mi sono limitato a presentargli i referenti della clinica svizzera che sono a Milano. Ora che, con “Sos eutanasia”, ho fatto un passo ulteriore di disobbedienza civile, dovrò esaminare più a fondo prima di finanziare il suicidio».
Dà i brividi l’idea di pagare il viaggio della morte.
«L’obiettivo non è mandarli in Svizzera ma introdurre anche in Italia l’assistenza al suicidio. Chi può infatti andare in Svizzera? Chi non è terminale e può essere trasferito e chi ha i sette-novemila euro per affrontare la procedura. Ma gli altri?».
Una candidata è già andata a morire a vostre spese, Dominique Velati, 59 anni, tumore al colon.
«A Dominique abbiamo pagato solo il viaggio in treno perché non aveva problemi economici per affrontare la procedura».
Sapeva del tumore solo da tre mesi, non si è nemmeno curata pur di accettare la tua offerta.
«Dominique non era una sprovveduta ma una militante radicale da trent’anni che incontravo a ogni congresso. Ha scelto di coinvolgere me, proprio per l’azione di disobbedienza. Era stata operata, ma c’erano le metastasi e i medici non le hanno dato speranza».
L’aiuto al suicidio, come tu lo dai, è punito dai cinque ai dodici anni.
«Spero che mi processino. La disobbedienza è legata al fatto che la proposta di iniziativa popolare sull’eutanasia è stata totalmente ignorata. Se il Parlamento tace, che lo Stato intervenga almeno tramite la Giustizia».
Che ti aspetti dai tribunali?
«Se mi incriminano, di vincere sostenendo che condannare chi agevola il suicidio assistito di un malato terminale che lo richiede, viola la libertà individuale e l’autodeterminazione della persona. Inoltre, discrimina tra malato e malato».
In che senso?
«La Costituzione, art 32, dice che nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario contro la sua volontà. Allora, Welby, che era attaccato a una macchinica aveva diritto a staccarla e a morire legalmente. Chi invece soffre, magari di più, ma non è intubato non può farlo. È discriminatorio».
Se invece la passi liscia e non ti incriminano?
«Vado avanti con la disobbedienza e ottengo due risultati. Creo il precedente che si può fare, senza subire conseguenze. Secondo: lo Stato rende palese la sua rinuncia a fare valere la legge che vieta l’eutanasia, di fatto ripudiandola».
Possiamo ucciderci. Non però pretendere che altri lo facciano per noi, i medici per esempio.
«Un malato terminale chiede solo aiuto per suicidarsi senza violenza, né rischi. Ricordo il caso di uno che si era buttato dalle scale e non era morto. Perché ridursi a brandelli quando un medico può dare assistenza compassionevole a chi soffre?».
Se si approvasse una legge sull’eutanasia, ammetteresti l’obiezione di coscienza?
«Sicuramente. Mai obbligherei un medico che non vuole ad aiutare una persona a morire».
Cosa pensi dell’idea cristiana che la vita è intoccabile?
«Il 52 per cento dei praticanti assidui è per la le legalizzazione dell’eutanasia. I leghisti, conservatori, sono favorevoli al 75 per cento. Molti teologi sono d’accordo. Solo il Vaticano recalcitra».
Dice che la vita è un dono di Dio.
«Se è un dono non è che poi mi chiedi che uso ne faccio. Parliamo di persone che amerebbero la vita se fosse vivibile. Non è che la buttano via. Sono terminali. Morire è un sollievo. Dominique, una settimana prima di partire ha dato una festa piena di gente e di allegria».
Come avviene la morte svizzera?
«Si consegna una documentazione e si è sottoposti a due visite mediche, una fisica, l’altra psichica. Si accerta che ci sia l’irreversibile volontà di morire».
Materialmente cosa succede?
«Nel giorno fissato, vai nell’ambulatorio. Ti danno un farmaco antiemetico, per evitare un rigetto che potrebbe mandare a monte il suicidio. Parlo di suicidio perché è il malato che porta alla bocca il bicchiere coi farmaci, a riconferma della sua volontà».
Dopo l’antiemetico?
«Prende un altro bicchierino con la sostanza letale e un sonnifero. Si addormenta. Mezz’ora dopo, è finito tutto».
Aiuteresti a morire, oltre ai terminali, anche gli inguaribilmente depressi?
«Io non entro nel merito delle sofferenze. Le persone si sottopongono alla legislazione elvetica. Certo ci sono anche depressioni incurabili. Nella nostra proposta di legge però non abbiamo incluso la sofferenza psichica».
Mi ha impressionato che Dominique, prima di morire, abbia rilasciato interviste. Protagonismo estremo?
«Sono stato io a chiederle se voleva lasciare una testimonianza. Lei, da radicale, l’ha fatto con convinzione per essere di aiuto agli altri. La domanda è questa: perché devo andare in Svizzera? È assurdo. Un modo per chiedere maggiore comprensione per i morituri».
Un’indignazione politica.
«Nel senso migliore e più disinteressato».
Com’è che un uomo giovane come te, si occupa da anni di morte?
«Occuparsi della morte è occuparsi della vita. La società dell’immagine rimuove il problema. Ma l’eutanasia sarà sempre di più una questione sociale rilevante. Con l’allungarsi della vita, le morti repentine sono meno probabili».
E allora?
«Morire sarà un lungo processo. Dovremo decidere per quanto tempo sopportarlo di fronte al progressivo deterioramento delle nostre condizioni».
Sei per la libertà di uccidersi ma anche, da radicale, per quella di drogarsi. C’è connessione?
«In gioco ci sono sempre le nostre libertà e il ruolo dello Stato che non può invadere la sfera privata. È il discorso sulla libertà d’impresa, di mettere su famiglia con uno dello stesso sesso, ecc.».
Liberi senza limiti. Non è troppo?
«Le libertà stanno tutte insieme, o non sono».