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 2016  gennaio 04 Lunedì calendario

«L’anno in cui cacciai Elton John per un ritardo». Pippo Baudo ricorda i suoi Sanremo

Presentare Pippo Baudo non è questione da discutere. Non si può. Lui non ha bisogno di niente: è entrato nelle case insieme alla televisione. Gli anni del boom economico, vennero chiamati. Li raccontava il Tg unico della Rai di allora. Era un altro mondo, nel senso geopolitico della parola. Ha inventato programmi, molti. Ha presentato tutto quello che c’era: dal Festival di Sanremo, del quale parleremo a lungo con lui, Fantastico, Natali, Befane, Capodanni, Domeniche In. Tutto. E lo ha fatto in una Rai molto diversa da quella che è oggi: una Rai autoctona, quella che ideava i programmi, li metteva in onda e poi li vendeva – e con successo – alle emittenti estere. Il contrario di quanto accade oggi. “Quella forse è la tv che manca, che dovrebbe tornare. Produttiva, anche dal punto di vista economico”, racconta Baudo al Fatto Quotidiano.
Con una popò di guida come la sua possiamo parlare di televisione come, forse, non viene fatto da un po’ di tempo. Non per giocare sulla nostalgia che non c’entra: lo stesso Baudo parla molto bene dei conduttori di oggi, non è ipercritico. Disegna una strada. E si augura che la Rai lo chiami al più presto per una consulenza.
Si aspetta una telefonata da questa nuova dirigenza?
Certo che l’aspetto. E sarei disponibile a fare il consigliori. Non quello del Padrino di Mario Puzo, ovviamente.
Degli incidenti di questi giorni, ne parliamo?
No, sono appunto incidenti di percorso che ci possono stare. Mi sembra che sia stato abbondantemente trasformato in un dramma. Eccessivo. È un incidente.
Tra poco tocca al Festival di Sanremo. Che non è esattamente quello che progettava lei.
Corre d’obbligo una premessa: il mondo musicale è cambiato. Allora si facevano canzoni perché durassero nel tempo, oggi nascono per essere riposte in un cassetto dopo qualche mese. Hanno uno spazio di sopravvivenza temporale molto più breve. Rispecchiano il rap, le melodie di piccola ampiezza, quelle che funzionano. È una legge del tempo, piaccia o meno.
Solo colpa dei rapper?
Andiamo per ordine. Intanto prima, quando il Festival l’ho iniziato a fare io, non c’era nessun tipo di concorrenza. Sanremo era l’unica manifestazione canora in eurovisione. Oggi spuntano talent a rotta di collo. Sono praticamente da tutte le parti, è ovvio che sia cambiato il modo di fare musica.
Solo?
No. C’è un altro fattore che riguarda gli autori. Sono scomparsi, sacrificati sulla strada dei cantautori. Al tempo i ruoli erano assolutamente diversi. C’era l’interprete e alle spalle un autore di robusta grandezza. Questo mix lasciava in qualche modo il segno. Poi è arrivato Gino Paoli e con lui, Umberto Bindi, Luigi Tenco. Grandissimi cantautori. Ma rimanere alla loro altezza sarebbe stato difficile. Invece oggi chiunque si scrive il pezzo e lo porta in gara. Non è la stessa cosa. Se non sei Paoli, Tenco o Bindi.
Non per stuzzicare la nostalgia: ma qual è stato il suo Festival più emozionante?
Quello del trio Enrico Ruggeri, Umberto Tozzi e Gianni Morandi. Avevano un bellissimo brano e durante quei giorni accadde di tutto. Morì Claudio Villa e fui io a dare l’annuncio in diretta. Con grande emozione, eravamo legati da anni di percorso e da una sana amicizia. Con tutto quello che lui, con Domenico Modugno, erano stati per il Festival.
Vinse il trio, giusto?
Sì. In maniera meritata. Non dimentichiamo che fu il Sanremo dove Fiorella Mannoia portò Quello che le donne non dicono, Fausto Leali il brano Io amo, e sono brani – qui mi ricollego al discorso che facevamo prima – che resistono ancora oggi. Sono passati trent’anni. Oggi nessuna canzone portata al Festival ha una capacità di resistenza tale. C’erano Sergio Caputo e Luca Barbarossa, Al Bano e Romina, Toto Cutugno, un brano di Gino Paoli cantato da Marcella. E per le nuove proposte Michele Zarrillo.
E lo share che raggiunse il 77 per cento.
Forse anche di più, ma non è quello. Parlo dell’intera kermesse. C’era Paul Simon come ospite. E una ragazzina di sedici anni, Whitney Houston. Incantò il pubblico con All at once, alla fine ci fu un’ovazione. Il pubblico si alzò in piedi e fu l’unica volta che chiesero il bis. Io dovetti correre dietro il palco a convincere i genitori a mandarla di nuovo a cantare e non fu per niente facile, lei voleva, loro no. Ma una trattativa in diretta tv. E alla fine fece il bis. Sì, è quello che ricordo con maggiore emozione.
E il primo presentato da Baudo?
Quello del 1968. Accettai con grande incoscienza, si era quasi nel pieno della contestazione studentesca, e soprattutto l’anno prima c’era stata la tragedia di Luigi Tenco. Presentava Mike Bongiorno. Per questo dico che accettai con incoscienza: dopo la morte di Luigi non sapevamo come avrebbe reagito il pubblico, i tempi stavano cambiando, i vertici della Rai erano titubanti.
E come andò?
Andò che venni ripagato. Vinsero Sergio Endrigo e Roberto Carlos con il brano Canzone per te, che – anche grazie a Carlos – diventò un brano, scritto da Endrigo con Bardotti, dal successo internazionale. Forse è una delle più belle canzoni di sempre. C’erano Louis Armstrong e Lionel Hampton.
La critica un giorno si dovrà ricredere. Ma soprattutto dovranno farlo anche i Guc cini, i De Gregori, quei cantautori che a Sanremo non sono mai venuti.
Io ho portato Bruce Springsteen a Sanremo. Non dimentichiamolo. E Paul Simon. Sono la canzone d’autore nel mondo. La questione più difficile fu con Elton John.
Perché? Cosa successe?
Arrivò con l’aereo privato a Nizza. Erano in anticipo e decisero che sarebbe ripartito subito dopo l’esibizione. Da Nizza invece di prendere l’autostrada, visto che erano in anticipo, fecero la vecchia Aurelia, e rimasero imbottigliati. Alle undici di sera, era il compleanno di Elton John, quel giorno, mi presentai sul palco con una torta e le candeline. Dissi al pubblico che le avrei spente io e chiamai lui e il suo staff per dire che potevano anche tornare indietro. A quel punto non lo volevo più: decisione difficile, fui energico, ma alla fine soddisfatto. La trovai mancanza di professionalità.
Vede suoi eredi in giro o insieme alla canzone sono scomparsi anche loro?
Ci sono, Carlo è un ottimo professionista. Per Carlo intendo Conti. Ma sono bravissimi anche Fabrizio Frizzi, Paolo Bonolis. Insomma, ce ne sono in giro di ottimi professionisti. Quella stagione dei quattro, io, Enzo Tortora, Mike Bongiorno e Corrado, fu anche troppo mitizzata. La televisione è andata avanti e bene anche senza di noi. È il resto che manca?
Cioè?
Il discorso della canzone vale anche per la tv: mancano bravi autori che vengano messi a ideare e non ad arrangiare le scatole chiuse importate dall’estero. Il format dobbiamo essere noi a crearlo, non acquistarlo fuori. Perché in qualche modo la nostra televisione è unica, diversa da quella spagnola, molto diversa da quella francese. Le racconto un aneddoto.
Tutto orecchie.
Un giorno mi chiama Carlo Rossella, all’epoca direttore del Tg1. Mi dice che finisce sempre sotto al Tg5 perché loro hanno il traino della Ruota della Fortuna di Mike e non riescono a competere. A quel punto riunisco gli autori e ci mettiamo al tavolino. Inventammo Luna Park. E la Rai quel format lo ha venduto in tutto il mondo.
E il Tg1?
Tornò regolarmente a battere la concorrenza.