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 2016  gennaio 04 Lunedì calendario

Fabio Aru e Vincenzo Nibali, ciclisti e amici. Mai avversari, per ora

Insieme mai, per il resto non chiedete a Vincenzo Nibali e Fabio Aru quanto e se si amino, quanto sia grande la loro amicizia, quanto si rispettino. Arrivereste a fine intervista con la glicemia alle stelle, meglio di no. Allora partiamo dalla domanda che la casalinga di Voghera farebbe a loro due, che sono metà, anzi assai di più, del ciclismo italiano, un Tour e una Vuelta vinti in quattordici mesi: chi è più forte, Nibali o Aru? Domanda non sbagliata, perché i due, che corrono nella stessa squadra, di fatto non sono mai stati avversari, ma solo l’uno, Aru, gregario dell’altro. Quando l’altro, Nibali, era partito per fare il gregario del sardo, nella scorsa Vuelta, il giochino si è fermato subitissimo, alla prima tappa in linea, e pure in malomodo. Ma allora, chi è più forte di voi due? Fabio Aru: «Nel ciclismo la strada stabilisce le gerarchie, noi abbiamo avuto la fortuna di non dover mai correre contro, anzi, di fare quasi sempre corse diverse. Io sono più giovane di sei anni, Vincenzo è più forte sul passo, abbiamo caratteristiche simili però, ma davvero non saprei dare una risposta». Vincenzo Nibali: «Lo capiremmo solamente se uno dei due andasse via dall’Astana. Se ne dicono tante sul mio futuro, ma se dovessi andar via non sarebbe per Fabio. Auguro a lui, comunque, di vincere quanto ho vinto io alla fine della sua carriera…» Questa è tosta. VN: «Sono felice di quello che ho fatto finora, tutto qua». FA: «A me piace la sfida e amo pensare al futuro come un’occasione, come una porta spalancata sull’ignoto». Cosa vi invidiate l’un l’altro. FA: «Lui è testardo, testardissimo, sa benissimo come muoversi e quando muoversi, io ho più bisogno della parola giusta, della squadra intorno, sono più razionale forse e meno istintivo». VN: «Ha il talento del leader, sa gestire le forze sue e degli altri e sa creare intorno a sé un ambiente favorevole in gara. Al Giro e alla Vuelta dello scorso anno ha saputo lavorare alla perfezione con Landa, che è un ragazzo ambizioso e che andava, come dire, tenuto a freno. Fabio è stato bravo, bravissimo in questo». Quale è stata la vostra più grande impresa? FA: «Resistere lo scorso anno sul Mortirolo, non prendere venti minuti. Lì le gambe mi erano saltate, non andavo più, mi ha trascinato in cima la testa. Quando ti capita di non avere più niente da dare, scattano altri pensieri, più alti, essere dignitoso, non deludere chi ha fatto chilometri per venire a tifare per te, cercare da qualche parte un barlume di entusiasmo e di resistenza. Quando stai per perdere tutto, tutto ti diventa prezioso, anche un gesto, un applauso, un metro d’ombra, la salita che spiana leggermente». VN: «L’anno è stato bello e strano, ho vinto tanto ma ho perso la cosa alla quale tutti mi attendevano, il bis al Tour. Però, per rispondere alla domanda, la mia più grande impresa di sempre è stato il Lombardia. Dovevo dimostrare qualcosa a me stesso, volevo vincere e poi, voi giornalisti, ringraziatemi, ora non dovete più scrivere “gli italiani non vincono le classiche monumento” eccetera. Io ho vinto quella che ho sempre sognato, la più adatta a me. Poi, anche la vittoria di tappa al Tour e cavolo, senza il guaio meccanico ai piedi dell’Alpe d’Huez, forse il podio l’avrei raggiunto». Cosa non rifareste? FA: «Un po’ di cose, tipo i troppi scatti a vuoto al Giro e alla Vuelta, le fatiche fatte inutilmente: il serbatoio delle forze non è mai infinito e in una corsa a tappe presto o tardi paghi». VN: «Attaccarmi alla macchina del direttore sportivo alla Vuelta è una risposta troppo facile? Acqua passata, no, non mi pento mai dopo le corse di qualcosa di fatto o non fatto, io corro col cuore, le gambe vanno di conseguenza, seguono l’energia impressa dal centro del petto. Punto a chiudere la carriera senza rimpianti. Quando non lo so, dipenderà dagli stimoli che avrò, quando finiranno dirò addio, è stato bello». Il posto più bello visto in bici? FA: «Amo da morire gli arrivi nelle grandi città, Madrid, Milano, la sensazione è curiosa: dopo tanta battaglia in posti minuscoli, è bello spuntare nel cuore di una capitale, vedere da vicino grandi monumenti, anche se poi non è che si abbia tutto questo tempo e questa curiosità, quando devi limare con gli altri nel folto del gruppo. VN: «Ho vissuto un’emozione grande al Giro del Lazio di qualche anno fa, con l’arrivo al Colosseo. Si pensa a noi ciclisti come a persone solitarie, invece ci piace la folla da stadio, ci piace il rumore, il tifo, la gioia della gente». La fatica più grande, dove? VN: «Alle Tre Cime di Lavaredo nel 2007. Quella salita non finisce mai. Quando ci tornammo, nel 2013, avevo la maglia rosa e non mi accorsi nemmeno della neve, anche se arrivammo al Rifugio Auronzo sotto una tormenta». FA: «Lo Zoncolan, che non è una salita ma un pugno nello stomaco, che tu stia bene o stia male, là non vai avanti. Ma anche il Mortirolo, sempre lui, è una roba pazzesca. Come vivete la vostra fama lontani dalle vostre due isole? FA: «La Sardegna è casa, è un posto che non cambierei con nessun altro al mondo e ogni volta che ci torno, purtroppo non spesso, è una gioia enorme. E poi un pezzo di isola i miei amici me lo portano sempre sulle strade, col loro “Ajò”». VN: «Minchia… della Sicilia, nonostante i tanti guai che abbiamo, non posso che dire bene, abbiamo il mare più bello, i dolci più buoni, i profumi più meravigliosi del mondo». Vi capita di fare gesti scaramantici prima delle corse? FA: «Il segno della croce, se si può definire un gesto scaramantico». VN: «Nessuno in particolare, ma ho una playlist che ascolto prima di partire». Sulla bici conta più il talento o la fortuna? FA: «Senza la fortuna, il talento difficilmente riesce a venire fuori, ma è vero anche il contrario, è pari, cinquanta e cinquanta, non ho cambiato idea durante l’ultimo anno». VN: «Prendiamo gli ultimi due Tour, nel primo, quello che ho vinto, tutto è tornato alla perfezione, nel secondo ho avuto tutta la sfortuna possibile all’inizio e proprio alla fine, quando cercavo il podio. È normale, quando pedali su millimetri di gomma a 50, 60 km/h, la sorte è un fattore determinante per forza di cose. Però, chi non ha fatto il corridore non immaginerà mai la mole di lavoro che c’è dietro l’arrivare a giocarsi una corsa. Arrivare ai dettagli, a vincere o perdere per mezza ruota, è il vero traguardo, arrivare a dire ok, questa corsa posso vincerla anch’io». 2016: Nibali al Giro, Aru e forse anche Nibali al Tour. FA: «Sono ansioso di vedermi su quelle strade, capire cos’è il Tour, la Francia, luglio, quelle montagne tecnicamente così adatte alle mie caratteristiche. So che dovrò confrontarmi con Froome, Contador, Quintana, non è la prima volta, ma è la prima volta contro di loro al Tour, e so bene quanto sarà diversa la musica». VN: «Tornerò al Giro dopo due anni di assenza, il percorso mi si addice, dovrò fare una prima parte di stagione mirata e mettermi in moto abbastanza presto. Sul Tour vedremo, i programmi si fanno, poi capita a volte di improvvisare, come mi accadde al Giro 2010, quando la squadra all’ultimo momento mi chiese di esserci e alla fine fui terzo della generale». Rio olimpica, percorso per scalatori, quindi per entrambi. Riunione prima della corsa: chi è il capitano, chi tira, come si corre? FA: «Se verrò convocato, farò tutto quello che Cassani mi chiederà. Dipenderà molto da come sarà la mia condizione, uscirò dal Tour, e in quelle settimane capirò anche le mie possibilità da corridore di altri tipi di corse. Ogni tappa del Tour è come un Mondiale, come una grande classica, come l’Olimpiade». VN: «Se avrò la condizione, cercherò di correre davanti e di fare meglio di Pechino e Londra, dove ho fatto tanto ma raccolto pochissimo. Chiunque faccia sport sogna l’Olimpiade. Ma potete stare tranquilli, non ci faremo la guerra, io e Fabio. Né a Rio, né altrove, finché indosseremo la stessa maglia».