La Stampa, 4 gennaio 2016
I figli di Sergio Leone vogliono vincere l’Oscar negato al padre
Che cosa sognano Andrea e Raffaella Leone? Di vincere quell’Oscar che al padre Sergio è stato ingiustamente negato. Ed è forse da lì come da una morte prematura piombata sulla testa di tre ragazzi, che bisogna ricercare il perché di tanta caparbietà nel cercare il successo. La Leone Film Group si è da anni quotata in borsa, distribuisce film americani e produce a livello internazionale grazie anche all’accordo in esclusiva con la DreamWorks di Spielberg e la Lionsgate e Summit, erano al Capri-Hollywood dove hanno portato in anteprima l’ultimo film di Tarantino The Hateful Eight, il thriller western con un cast da capogiro, uscita italiana il 4 febbraio. Da produttori, in Italia spaziano da Tornatore per il suo prossimo film internazionale a Paolo Virzì de La pazza gioia.
Andrea, diventare un ponte tra l’America e l’Italia in fondo era un desiderio di vostro padre?
«Il suo primo pensiero era di vederci tutti nel cinema. Siamo cresciuti a pane e set, quando è morto avevo 20 anni. Nessuna azienda alle spalle, nulla di materiale. La Andrea Leone Film l’aveva fondata papà nel 1989 e dentro c’era solo il 50% dei diritti per l’Italia di C’era una volta il West e di Giù la testa. Una società di cui non conoscevo neppure l’esistenza. Lui pensava per equipe: vedeva Raffaella costumista, Francesca scenografa e me produttore. Poi Francesca ha deciso di fare altro, dipinge. Noi due avevamo solo tre pagine di Leningrado sull’assedio alla città durante la II Guerra che mio padre avrebbe voluto girare e con quelle cominciammo a fare trading di diritti per i film che andavano in home video. Per 10 anni fummo i leader».
E poi il mondo è cambiato?
«Nel momento di crisi durante il passaggio tra Berlusconi e Monti capimmo che il mercato era saturo e abbiamo cominciato a ricomprare tutti i film di papà, che ovviamente erano proprietà dei produttori di allora. Abbiamo avuto la fortuna che Raicinema e Medusa decidessero di non acquistare più film internazionali e noi, con 400 film nella library abbiamo fatto il salto di qualità, da azienda familiare a industria sui mercati internazionali con l’entrata di Marco Belardi dopo l’acquisizione della Lotus».
Il momento più bello?
«Quando abbiamo ricomprato C’era una volta in America e lo abbiamo visto in versione originale a Cannes con tutto il cast in sala, abbiamo pianto con De Niro».
Un film tormentato...
«Mille problemi economici e poi il produttore americano Arnon Milchan con il quale finì male. Il film era lungo, loro lo tagliarono e lo rimontarono cronologicamente, stravolgendolo. Mio padre lo disconobbe, però così ridotto lo videro all’Academy. Un grande dolore per lui, l’Oscar se lo sentiva».
Non è stato il primo produttore con il quale finì male.
«No, andò in causa anche con Papi e Colombo che avevano prodotto Per un pugno di dollari. Lui era un uomo molto rigoroso ma non litigioso, sul set non era mai stanco ma guai se non lo facevano mangiare, adorava il cibo buono».
I suoi migliori amici?
«Ennio Morricone con il quale era andato a scuola alle elementari, ho una foto di loro due con il grembiulino e Giuliano Gemma».
Mai una lite, possibile?
«Anche noi quasi non ci crediamo però siamo cresciuti come un clan, vacanze insieme, sempre vicini, sarà lì la nostra forza. Se avessimo lui in squadra sarebbe perfetto, era spiritoso, divertente, un romanaccio caustico».
E ora riporterete in vita un’idea di vostro padre?
«Oltre a una serie tv con Tornatore sulle origini della mafia, vogliamo fare un western pensato da papà: le storie viste da una colt, la pistola che passando di mano in mano racconta quel mondo».
Sarà violento come quello di Tarantino?
«Sarà come quelli di papà, in fondo era sua l’idea. Poi vogliamo girare una storia per bambini. Produrremo il prossimo film di Spielberg Il gigante buono che ha un budget di 250 milioni di dollari e il prossimo film di Mel Gibson».
Il cinema per voi è casa?
«È divertimento innanzitutto ed è la vita che ci ha mostrato papà».