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 2016  gennaio 04 Lunedì calendario

Gli italiani hanno imparato a fare la coda (merito dell’Expo). Per i britannici è una vera e propria arte

Alberto Mattioli per La Stampa
Tutti in coda, perfino con una certa nostalgia per le file infinite di Expo, cosmopolite, colorate, chiacchierone e alla fine spesso più interessanti del padiglione per il quale si facevano. A Milano, code la mattina dell’1, a veglione non ancora smaltito, per le mostre in piazza della Scala, Hayez alle Gallerie d’Italia e L’adorazione dei pastori di Rubens in trasferta a Palazzo Marino (e a ingresso libero, parole mai così magiche come di questi tempi). E code anche ieri, sotto la pioggia, questa sconosciuta, e perfino un po’ di nevischio. Poi si attraversa la Galleria e per il Duomo le file sono addirittura due: per la Porta santa e per la porta d’ingresso, insomma per la visita turistica. E pazienza se i controlli allungano ancora di più i tempi.
Per il mondo
Però questo non è né il solito pezzo sui turisti nelle nostre città d’arte e nemmeno sull’attuale fortuna delle mostre. No: la novità è che, dopo Expo, il milanese e magari anche l’italiano ha imparato a fare la fila. Anzi, si sospetta addirittura che mettersi in coda inizi anche, se non proprio a piacergli, almeno a non dispiacergli troppo. Certo, siamo ancora lontani dagli esempi stranieri più spettacolari. In Giappone, quando devi prendere il treno superveloce che si ferma appena due minuti (che devono essere davvero due perché il ritardo non è nemmeno contemplato), appositi segnali sul pavimento ti indicano dove devi metterti in coda per la salita, in modo da non intralciare la coda per la discesa. Chi scrive vide a Londra un inglese in fila per l’autobus da solo: si era piazzato sotto la pensilina parallelo al senso di marcia del bus, in modo che chi arrivava dopo sapesse già dove incolonnarsi. E le code italiane non sono ancora ben organizzate: basta andare a Disneyland per capire che la fila non va mai disposta in linea retta ma sempre a zig-zag, così sembra più corta.
Però in attesa ci sono anche molti milanesi. Pazienti e disciplinati, al contrario di quel che ci si poteva aspettare dove la tradizionale anarchia italiana si unisce alla tipica impazienza di Milano, una città dove l’unica cosa socialmente imperdonabile è non avere fretta. Eppure, racconta Andrea De Mauro, al freddo e al gelo per Hayez nessuno ha dato in escandescenze: «Non siamo stati influenzati dai pochi stranieri. O eravamo bloccati dal freddo o abbiamo veramente imparato a fare le code». Senza i trucchi visti a Expo per saltarle, dal cuscino sotto il maglione per fingere la gravidanza ai dodicenni obbligati a strizzarsi sul passeggino dismesso da tempo. E nonostante la mancanza di generi di conforto: a Torino, con subalpina squisitezza (in tutti i sensi), la Gam ha distribuito ai visitatori in coda cioccolata calda. Manca, peraltro, un libro che spieghi sociologia e tecnica della fila riuscita come quello di David Andrews, Why Does The Other Line Always Move Faster, «Perché l’altra fila si muove sempre più velocemente».
Lo smartphone aiuta

Certo, lo smartphone aiuta. Adesso in fila puoi fare tutto quello che faresti in ufficio, anche e soprattutto i giochi. Ma rimane l’impressione già avuta dai tempi di Expo, quando ci si chiedeva perché la gente facesse dieci ore di coda per entrare nel padiglione giapponese quando con lo stesso numero di ore di volo sarebbe potuta entrare in Giappone, quello vero. Fare la coda senza fare storie fa parte di una più generale rivalutazione della lentezza. Socializzare, aspettare, fare due chiacchiere, perfino lasciarsi cullare dal ritmo vagamente ipnotico della fila significa, per una volta, prendersi il proprio tempo, senza assillare né farsi assillare. La lentezza, alla fine, è l’unico vero lusso che ci resta.


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Vittorio Sabadin per La Stampa

Qualche anno fa si fece un sondaggio in Inghilterra per scoprire quali caratteristiche determinavano l’identità inglese. Al primo posto risultò ovviamente il parlare del tempo e al secondo, davanti all’humour, la passione per le code. Non c’è da stupirsi: gli inglesi non subiscono le code, le amano proprio. Nessuno ha capito davvero come funzionino: ogni coda forma in breve tempo da sola un codice di comportamento specifico. Quella di Wimbledon, per vedere le partire di tennis, fa ormai parte del rituale dello spettacolo, è sempre allegra e pittoresca e accompagnata da distribuzione di tè e sandwich. Altre hanno qualcosa di magnetico e si sospetta che molta gente si metta in coda solo per il piacere di scoprire che c’è davanti. In coda si possono fare amicizie e ovviamente parlare del tempo e fare battute sarcastiche, in modo da avere certezza assoluta della propria identità.
La coda inglese è diventata così mitica che molti specialisti l’hanno studiata, scrivendo anche libri come Queuing for beginners (Mettersi in coda per esordienti) di Joe Moran. Moran sostiene come altri storici che la coda non è innata nello spirito britannico, ma ha avuto origine nella Rivoluzione industriale, quando milioni di persone si sono riversate nelle città rendendo necessario trovare un modo di convivenza civile. In quel periodo, la coda ha assunto anche una connotazione un po’ triste, che per fortuna ha presto perduto. Era spesso associata alla povertà e al bisogno, si stava in coda per ricevere cibo e assistenza.
A Londra, durante la II Guerra mondiale, la retorica della guerra ha posto le basi della coda moderna. I continui appelli a fare il proprio dovere e a rispettare il proprio turno avevano lo scopo politico di tenere sotto controllo una situazione sociale difficile, ma hanno dato un significato democratico e patriottico allo stare in fila. Pragmatici e flemmatici, gli inglesi non hanno più smesso, e ancora oggi il modo migliore per individuare uno straniero è guardare chi non rispetta la coda. Quando accade, di solito nessuno dice niente, ma il disprezzo che trapela dagli sguardi di chi è stato superato può segnare una vita.
Tutte le buone tradizioni hanno i loro alti e bassi e oggi si dice che le migliori code non siano più quelle inglesi, ma quelle del Canada, che comunque è membro del Commonwealth e ha ancora la regina Elisabetta come Capo di Stato. Le difficoltà del traffico di Londra sono proverbiali e si è notato qualche cedimento alla fermata degli autobus, che in Regent Street non arrivano per ore e poi passano tutti assieme. Piuttosto che perdere il proprio, magari sotto la pioggia, spesso si violano le precedenze. E all’aeroporto, quando Ryanair apre l’imbarco senza avere assegnato i posti, donne, uomini e bambini inglesi corrono ognuno per sé, come se già fossero in Italia.