La Stampa, 4 gennaio 2016
Migranti e rifugiati sono un ottimo soggetto per gli artisti
Se lo spray racconta meglio dell’obiettivo è perché è difficile guardare dritto in faccia un uomo disperato, quasi impossibile fissare un bambino morto sulla spiaggia.
Dalle foto dei rifugiati si scappa, consciamente o meno, non importa: le emozioni colpiscono come schiaffi e distogliere lo sguardo è più facile di quanto si creda. Pudore, paura, vergogna: la lista dei motivi è lunga. Le opere sui rifugiati invece mantengono l’impatto però superano il trauma, vanno oltre e chiedono pure qualcosa di più. Senza la scusa dello sconcerto si è obbligati a rispondere, o almeno a considerare, le domande.
Il viaggio di Steve Jobs
Davanti al graffito di Banksy, al porto di Calais, l’istinto non è chiudere gli occhi ma osservare meglio quello Steve Jobs pasticciato con il sacco in spalla e il Macintosh del 1984 in mano. Figlio di un migrante, adottato dagli americani, padre dell’iPhone, la catena del «cosa sarebbe successo se...» è immediata, magari banale e semplicistica però di sicuro effetto.
Quella figura scarabocchiata con estrema cura è diventata un patrono per chi transita nel porto dello smistamento. Punto nevralgico preso d’assedio, punto pericoloso presidiato dalla polizia, centro di speranza e frustrazione. E sta tutto in uno schizzo dedicato ai senza patria ammassati nella «giungla», la tendopoli di Calais e pure il titolo del murales.
Pouyan e il mare nero
Gli artisti sentono l’urgenza di descrivere questo mondo in movimento. Chi scappa, chi si nasconde, l’onda d’urto che ne segue, tutto ad altissimo voltaggio nell’agitato presente, tutto più gestibile tradotto nel lavoro di chi usa il talento per definire l’attimo in cui non c’è più nulla di sicuro.
L’iraniano Shahpour Pouyan ha rivisitato miniature persiane, le ha manipolate e sul vascello nero non ci sono più persone, solo buio. Non si può vedere, ma la paura si intuisce e si avverte eccome sopra quel pozzo scuro che era stato concepito come un mare argentato, «ma l’argento con il tempo si ossida». E allora restano toni scuri, bisbigli e promesse senza garanzia in un quadro che si rivela fin dal nome: «Dio decide la rotta, non il capitano» e chiunque salga su quei barconi lo sa. Sa di aver pagato un trafficante spregiudicato e non ha certo affidato a lui la propria esistenza.
Un relitto in una chiesa
Un barcone, o meglio un maxicanotto che mostra tutta la sua fragilità, sta appeso sul soffitto della chiesa di Saint James, a Londra. L’installazione è firmata da Arabella Dorman, artista di guerra nota per i soldati fantasmi usciti dalle facce dell’esercito britannico in Iraq.
Il relitto verdastro orbita sopra i banchi della navata centrale, con i giubbotti di salvataggio che pendono, sgargianti e così evidententemente inadeguati a trattenere una vita: «Il pensiero va ai 3600 morti mentre cercavano di attraversare il Mediterraneo». Per salutare l’opera non hanno organizzato un’inaugurazione, ma una meditazione. Un’ora di preghiera per ricordare chi non c’è più e, per quanto ipocrita possa sembrare, le parole della liturgia cambiano se sopra la testa ti penzola una bara galleggiante. In realtà, da quel particolare canotto sono uscite vive 62 persone, c’era posto per 15 e non si sa neppure come gli altri si siano attrezzati per passare dalla Turchia alla Grecia sopra quell’affare. Si sono salvati e il loro mezzo di trasporto abbandonato a riva si è trasformato.
Dorman non racconta le storie di chi ha viaggiato rannicchiato in qualche centimetro di plastica, si limita a evocare il loro destino. Quello reale, finito con lo sbarco e quello parallelo, la sorte toccata ai tanti che ci hanno provato e non ci sono riusciti. Come Khalid, il bimbo siriano di due anni morto ieri nell’Egeo.
Memoriale per i migranti
Dorman si è fatta ispirare dalla spiaggia di Lesbo, dai resti che ci ha visto sopra, «dalla fatica di guardare». E su quella spiaggia si è accampato Ai Weiwei deciso a costruire una scultura dedicata ai profughi. Una Statua della libertà alternativa e insieme un memoriale per chi non ce l’ha fatta, un ricordo che diventi motivazione per chi arriva privo di passato. Il più famoso degli artisti-attivisti ha raccolto coperte termiche, guardato l’orizzonte, catalogato oggetti perduti e in questo 2016 svilupperà il progetto.
Vuole omaggiare, non catalogare chi parte e chi si perde perché ogni rifugiato viene bollato con un numero e un quasi automatico stereotipo che lo priva della sua personalità. Marchiati, come suggeriscono i voluminosi timbri del camerunense Barthélémy Toguo esposti alla Biennale di Venezia. Gli slogan formato gigante oscillano sopra forme simili a mezzi busti, simili a uomini.
Il rifugiato è per forza in divenire, forse per questo una fotografia non può raccontarlo fino in fondo, ma un’opera d’arte sì.