la Repubblica, 4 gennaio 2016
Tabelline: bisogna mandarle a memoria oppure no? (Con un trucco per ricordarle meglio)
Era il 1998. L’allora ministro dell’istruzione del governo del Regno Unito Stephen Byers aveva appena rivolto un affettuoso ma severo monito agli studenti inglesi, ricordando loro l’importanza di imparare le tabelline. Subito dopo, durante un’intervista radiofonica, si era sentito chiedere a bruciapelo una personale conferma: quanto fa 7 per 8? La risposta di Byers, altrettanto a bruciapelo, fu: 54. Apriti cielo. Perché 7 per 8 fa 56, a scanso di equivoci, nel Regno Unito come in tutto il mondo. Così il ministro Byers si coprì di ridicolo (ma non abbastanza da interrompere la carriera politica) e i giornali inglesi scatenarono il tormentone. La Bbc si chiese perché 7 per 8 sia così facile da sbagliare, mentre a 6 per 8, o a 7 per 7, più o meno ci arriviamo tutti, e diversi politici d’oltremanica da allora si sono sentiti rivolgere domande di aritmetica, quasi mai accogliendole con un sorriso. Ma ci fu anche chi volle smettere di ridere, e chiese a dito alzato una revisione dei curriculum scolastici con più attenzione alle tabelline. Oggi, dopo anni di dibattiti tra gli esperti probabilmente ignorati dalla politica, il ministro dell’istruzione Nick Gibb è passato ai fatti. D’ora in poi gli studenti inglesi dovranno imparare entro la fine del quarto anno di scuola primaria (quando hanno nove anni) le tabelline fino a quella del 12. Non solo: saranno esaminati orologio alla mano, durante il nuovo esame al computer che il Dipartimento dell’Educazione ha definito “la battaglia del governo contro l’analfabetismo letterale e numerico”. Stavolta nessuno ha chiesto a Gibb se sappia quanto fa 7 per 8, ma c’è chi ha fatto sentire comunque il suo dissenso. Come Jo Boaler, docente inglese di didattica della matematica, oggi all’università di Stanford, negli Stati Uniti, che ha aperto la polemica dalle pagine dei giornali britannici. In questo modo, sostiene, non si fa che peggiorare la fama della matematica, alimentando l’avversione degli studenti che cercheranno, al primo dubbio su 7 per 8 o su 7 per 6, di evitarla a tutti i costi. «Cioè – ha dichiarato al Guardian – dobbiamo pensare seriamente se valga la pena rischiare che alcuni bambini si allontanino dalla matematica a otto anni, solo perché vogliamo essere certi che sappiano dire senza esitazioni quanto fa 7 per 6 quando sono sotto pressione». Jo Boaler, in particolare, attacca i test a tempo, che in Italia non hanno la stessa diffusione che nelle scuole inglesi. Ma non risparmia nemmeno le tabelline di per sé: «Io non le ho mai davvero memorizzate – ha spiegato – ma questo non mi ha impedito di dedicare la vita alla matematica». E qui, dove il cronometro a scuola (per fortuna) non si usa, la questione si può porre negli stessi termini: servono ancora le tabelline? A che cosa? «Servono, come serve imparare l’alfabeto», risponde Giuseppe Rosolini, logico matematico dell’Università di Genova e membro del comitato editoriale di Archimede, la più antica rivista italiana di divulgazione matematica. «Uno bravo con le tabelline non è necessariamente bravo in matematica, e viceversa. Ma non saper fare i calcoli elementari è come non sapere mettere insieme le lettere dell’alfabeto, e un poeta che non sa farlo probabilmente avrà difficoltà a scrivere poesie». E chi poeta non è? Cioè: chi non è destinato a diventare matematico? «La matematica è importante per tutti, come la capacità di esprimersi in italiano. Poi ognuno fa il suo mestiere: io non so il dizionario a memoria, però mi sento sicuro quando parlo». Le tabelline servono, ma a patto che siano insegnate bene, gli fa eco Anna Baccaglini- Frank, ricercatrice di didattica della matematica all’università La Sapienza di Roma, membro del comitato scientifico-editoriale della collana “Artefatti intelligenti” (Erickson), collaboratrice anche lei di Archimede. «Oggi la scuola italiana spesso le insegna come cantilene, cioè con metodi solo verbali. E i bambini le imparano come potrebbero fare con l’incipit dei “Promessi Sposi”, che poi si dimentica quando non si ripete più». Invece vanno imparate con un ragionamento dietro, che sia un ragionamento insegnato da un adulto o una strategia che il bambino scopre da sé. «Cioè: vanno mandate a mente con il loro significato matematico, e non usando la memoria per esempio in associazione alla cantilena o a particolari disegni». Insomma: se Byers avesse preso un paio di secondi in più per evitare di pescare un vecchio ricordo di scolaro dalla memoria, e per pensare che 7 per 8 è come 7 per 7 (che è più facile da ricordare, e sempre a scanso di equivoci fa 49) più altri 7, avrebbe detto 56 e si sarebbe risparmiato la figuraccia. «Le regole rigide imposte ai bambini fanno solo danni», prosegue Anna Baccaglini-Frank. E «la matematica non è certo fatta solo di calcoli», aggiunge Rosolini. Ma anche la didattica della matematica non è così assiomatica nel fare le sue proposte. Per esempio, è utile esercitare i bambini con le “gare delle tabelline”, cioè le competizioni tra alunni per chi risponde prima? «Sì – risponde Cosolini – perché si imparano più in fretta». Ma «no – secondo Baccaglini- Frank – perché se un bambino è pronto ad automatizzare il calcolo, lo fa anche senza sollecitazioni. E farlo in fretta, da gara, non significa farlo bene. Uno potrebbe aver imparato un trucchetto mnemonico, non la matematica che ci sta dietro». Su certi dettagli della didattica, insomma, c’è dibattito. «Ma insisto: imparare le tabelline non significa sapere la matematica o essere destinati a diventare matematici – chiosa Rosolini – Io ho avuto la fortuna di essere stato compagno delle elementari di Patrizio Roversi, e di aver avuto un bravissimo maestro. Beh, lui ci faceva fare le gare. E Patrizio arrivava primo in matematica mentre io primo in geografia. Oggi Patrizio fa il viaggiatore, e io il professore. Di matematica!». L’importante, insomma, non è solo sapere quanto fa 7 per 8, e rispondere al volo, ma «saper ricavare tutto da poche cose mandate a memoria, e imparare a pensare di volta in volta a come usarle», conclude Baccaglini- Frank. Detto questo, tutti d’accordo persino con il segretario dell’educazione Nicky Morgan, che ha aggiunto alle parole del ministro Gibb un imperativo: «La matematica è un elemento non negoziabile di una buona educazione». Così come 7 per 8 fa 56.
Silvia Bencivelli
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Una volta le tabelline non si studiavano a memoria. Non si studiavano proprio. Quelle prime forche caudine sotto cui ancora oggi devono passare gli alunni delle elementari, finendo inevitabilmente a odiare la matematica, secoli fa non servivano. I popoli antichi usavano infatti il pallottoliere, quando dovevano fare le operazioni matematiche. Il risultato però era che romani, greci e babilonesi avevano grandi difficoltà a fare moltiplicazioni e divisioni per via del modo in cui scrivevano le cifre. Non avevano regole semplici per fare le operazioni matematiche, per cui si affidavano tutti all’abaco. Mettevano in fila palline e pietruzze per fare quello che noi oggi facciamo a mente. Contavano così. Le tabelline hanno anche una data di nascita: il 628 dopo Cristo. Un indiano di nome Brahmagupta scrisse un trattato di aritmetica nel quale introduceva nel sistema decimale il numero zero. E fece capire al mondo che quello che mancava ai romani e ai greci era appunto lo zero! Con lo zero tutto sarebbe stato più semplice. È stato inventato dagli indiani, non dagli arabi. Avendo le cifre dall’uno al nove, e aggiungendo lo zero, si potevano scrivere tutti i numeri possibili. Nel suo trattato Brahmagupta dimostrava come si potevano fare le operazioni aritmetiche usando soltanto le dieci cifre. L’unica cosa che ti serviva sapere erano le tabelline, dallo zero al nove. Se le conosci a memoria, sei in grado ad esempio di moltiplicare qualsiasi numero, perché il sistema prevedeva di moltiplicare due cifre per volta. Era una rivoluzione, e come tale, all’inizio fu avversata. Lo studio delle tabelline e del sistema decimale fu introdotto fin da subito nelle scuole indiane, poi verso l’Ottocento la corte persiana lo fece adottare a tutto il mondo arabo. E finalmente, da buoni ultimi, arrivò in Europa grazie al matematico toscano Leonardo Pisano detto il Fibonacci. L’accoglienza fu tiepida. Gli studiosi si divisero tra i sostenitori del nuovo metodo e i difensori dell’antico pallottoliere. Una diatriba che è andata avanti per due-tre secoli, tanto che ancora nel 1499 a Firenze veniva emanata un’ordinanza che proibiva sul territorio l’uso del sistema decimale, perché lo zero si poteva falsificare! Poteva diventare un sei o un nove con una piccola aggiunta fraudolenta, e dunque lo ritenevano poco sicuro per tenere la contabilità. Ma con l’arrivo della stampa, dal sedicesimo secolo in poi, non ci fu niente da fare: le tabelline diventarono un pilastro dell’educazione in ogni scuola. Bisogna impararle a memoria, non c’è altro metodo. Se proprio siamo pigri, impariamo almeno quelle fino al cinque e utilizziamo le dita delle mani per fare le moltiplicazioni. Supponiamo di voler calcolare 7x8. Il metodo è questo: si tolgono cinque unità a entrambi i fattori, quindi si alzano sulla mano sinistra due dita (cioè 7-5), sulla mano destra tre (8-5). Si sommano le dita alzate e si hanno le decine: 5. Poi si moltiplicano le dita che sono rimaste abbassate, quindi tre nella mano sinistra e due nella destra: 2x3 fa 6, è questa la seconda cifra va aggiunta alle decine. Risultato: 56. In ogni caso, non ci dobbiamo lamentare delle tabelline perché a noi ci basta conoscere quelle dallo zero al nove. Se fossimo babilonesi, che avevano un sistema numerico a base sessadecimale, dovremmo impararle dallo zero al cinquantanove.
Piergiorgio Odifreddi