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 2016  gennaio 04 Lunedì calendario

Alla riscoperta di Domenico Barbaja, il padrino della lirica che sequestrò Rossini (tra le altre cose)

Nel ritratto conservato al Museo teatrale della Scala, Domenico Barbaja posa con aria soddisfatta, appoggiato a un tavolino ricoperto di broccato. Indossa un ricco abito con il collo di pelliccia, una canna nelle mani. Stranamente, ha i capelli, il che non collima con la descrizione che ne fece Rossini: «il più calvo e il più feroce dei direttori», che durante la stesura dell’Otello lo aveva rinchiuso in una stanza del suo palazzo napoletano «senz’altra cosa che un piatto di maccheroni, e con la minaccia di non poter lasciare la camera, vita durante, finché non avessi scritto l’ultima nota». Ma nel ritratto di Barbaja quel che colpisce di più non è lui. A destra spuntano da un quadro nel quadro le teste di Rossini, del celebre tenore Giovanni Battista Rubini e della non meno celebre primadonna Isabella Colbran. Come dire: il puparo e i suoi burattini.

Milanese napoletano

Sembrerà strano, ma Barbaja è, in un certo senso, la figura più importante dell’opera italiana nella prima metà dell’Ottocento. È il «Napoleone degli impresari», l’uomo del business che rende possibile l’arte, l’amico, socio, datore di lavoro e talvolta carceriere di Rossini, lo «scopritore» di Bellini, Donizetti, Mercadante, Pacini, Vaccaj, il tenutario per decenni del San Carlo di Napoli e, a intermittenza, della Scala e del Kärntnertortheater di Vienna, il mecenate miliardario che tratta da pari a pari con Metternich o i Borbone. Adesso arriva in Italia, tradotta dalla Edt, la sua unica biografia moderna, frutto delle lunghe ricerche di Philip Eisenbeiss: Domenico Barbaja – Il padrino del belcanto (pp. 320, € 26). È uno sguardo dietro le quinte dell’opera e, insieme, il racconto di una vita romanzesca, improbabile, eccessiva: da melodramma, appunto.
Barbaja si chiamava in realtà Barbaglia e nacque nel 1777 a Ponte Sesto, frazione di Rozzano, oggi hinterland milanese, allora campagna. Famiglia modestissima, di braccianti. Domenico non imparò mai a parlare l’italiano (si esprimeva in un pittoresco miscuglio di dialetto milanese e locuzioni napoletane), men che meno a scriverlo. Ecco l’estratto di una sua lettera a Rubini, testuale: «Caro amico voi sapete adeso cosa farebe il c.zo di Barbaya se avesi il tuo nome e li tuoi talenti per lamico rubini; (…) ma tu ai tropo talento e tropa amicisia per il tuo Barbaya per non esermi utile».
Il giovane Domenico debuttò come garzone di caffè. E qui ebbe il primo dei suoi molti colpi di genio: l’invenzione della «barbagliata», quel miscuglio di caffè, cioccolato e panna che oggi si chiama mocaccino. Sembra strano (e anche improbabile) che non ci avesse ancora pensato nessuno; sta di fatto che Barbaja iniziò a farsi un nome così. Il passo successivo fu di mettersi a lavorare come biscazziere alla Scala. Era l’epoca in cui i ridotti dei teatri ospitavano il gioco d’azzardo, anzi erano stati costruiti proprio per questo: il gioco attirava gente all’opera e viceversa. Ignorante ma sveglio, avido ma generoso, sempre entusiasta, aggressivo, indaffarato, Barbaja si mise in proprio, vinse gli appalti dei tavoli, poi dei teatri. Nel 1809, regnante Gioacchino Murat, si aggiudicò i teatri reali di Napoli (il San Carlo e il Fondo, l’attuale Mercadante) che avrebbe conservato per trent’anni attraversando tutti i regimi. Nel ’15 mise a segno il colpo grosso chiamando a Napoli Rossini. I rapporti fra i due non si sarebbero mai interrotti, nemmeno quando Rossini sposò la Colbran, che era stata l’amante di Barbaja. Erano soci, sodali, complici: per sette memorabili anni litigarono di continuo e trasformarono per sempre l’opera italiana.
Lettere sgrammaticate
Intanto Barbaja gestiva il suo circo Barnum di cantanti, compositori, librettisti, coreografi, scenografi, costumisti, agenti e croupier, al servizio di un sistema produttivo che marciava a ritmi indiavolati, degni di una soap opera di oggi. Dal suo palazzo di via Toledo, dalla sua favolosa villa di Mergellina e dalla non meno favolosa casa di Ischia partivano le lettere sgrammaticate che facevano e disfacevano le fortune teatrali europee. Per il suo amico Ferdinando I, Barbaja riedificò in otto mesi il San Carlo bruciato (e poi si dice male dei Borbone), poi regalò a Napoli la chiesa di San Francesco di Paola, riunì una collezione d’arte, ammassò e perdette patrimoni. Morì nel 1841, rimpianto da tutti.
Questa sua biografia è notevole. Anche Eisenbeiss è un personaggio: dopo aver provato senza successo a studiare canto, lavora come banchiere a Hong Kong, ma è un operoinomane doc. Certo, ogni tanto fa qualche errore (nel 1806, la Repubblica di Venezia era finita da dieci anni), si fida troppo di una fonte notoriamente inattendibile come Stendhal e azzarda giudizi opinabili (che Armida sia il vertice del Rossini napoletano è tutto da discutere: Ermione e Maometto II, semmai). Però il libro è all’altezza del suo soggetto.