La Stampa, 4 gennaio 2016
Non pagare l’Iva si può, lo dice la Cassazione. È l’«evasione di sopravvivenza»
L’hanno chiamata «evasione di sopravvivenza», ed è quella che costringe un imprenditore a scegliere tra versare le tasse e chiudere bottega, perché i soldi dovuti al Fisco sono gli unici a disposizione per tenere in vita l’azienda, pagare gli stipendi ai dipendenti e tentare un disperato rilancio. Negli anni della grande crisi è stata l’ultima carta giocata da molti piccoli industriali per sfuggire a un destino cupo: clienti che evaporano, ordini in picchiata. Non versavano le imposte, a cominciare dall’Iva, sperando di campare ancora un po’, ma sapendo che il prezzo da pagare per quel po’ di ossigeno sarebbe stato alto: trovarsi faccia a faccia con lo Stato. Quello stesso Stato che, saldando in ritardo i suoi debiti, era la causa principale delle loro difficoltà.
Sequestro annullato
Molti sono finiti stritolati in questa spirale: oltre 15 mila dal 2008 a oggi. Alcuni si sono salvati, ma solo dopo aver combattuto una lunga e affannosa battaglia. Nei giorni scorsi la Cassazione ha annullato un’ordinanza del tribunale di Pescara che aveva disposto il sequestro preventivo sui beni della società e sui conti di Corrado C., manager di una azienda del settore costruzioni, messo sotto indagine per omesso versamento dell’Iva. La misura del sequestro rischiava di far chiudere l’azienda, già in difficoltà dopo anni di crisi dell’edilizia, appesantita dai debiti, ma soprattutto da una moltitudine di crediti maturati negli anni e mai riscossi. Con alcune imprese finite in cattive acque ma soprattutto con lo Stato.
L’imprenditore Corrado C. nel 2011 non ha versato 170 mila euro di Iva, ma le sue difficoltà sono cominciate prima: dal 2005 costantemente contrattava con Equitalia la rateizzazione delle imposte arretrate. Riusciva a pagare, anche se spesso sforava i termini. Nel 2011 non ce l’ha più fatta. E il tribunale, per tutta risposta, nel marzo scorso, ha disposto il sequestro dei beni personali e aziendali, a garanzia di quanto doveva all’Erario, facendogli rasentare il fallimento.
La Cassazione ha fermato tutto: negli anni Corrado C., mentre implorava l’Erario perché gli concedesse un po’ di tregua, rateizzando i suoi debiti, ha accumulato quasi 3 milioni e 900 mila euro di crediti con la pubblica amministrazione. La sua impresa vinceva gare d’appalto, portava a termine le commesse ma incassava il dovuto con un ritardo tale da metterla in ginocchio.
Sforzi inutili
«Tutti gli elementi a discarico sono stati ignorati dal Tribunale, che non ha neppure spiegato le ragioni poste a sostegno della propria decisione», scrivono i giudici della Cassazione nella sentenza con cui accolgono il ricorso dell’imprenditore. Corrado C., presentando documenti, moduli e persino la relazione di un consulente aziendale, ha dimostrato di averle tentate tutte per mantenersi in regola, ma di aver capitolato solo quando i debiti che lo Stato aveva accumulato nei confronti della sua azienda sono diventati insormontabili. E, per i giudici, la pubblica amministrazione – responsabile delle sue difficoltà – non può adesso presentargli il conto, rischiando di farlo affondare.
Pagamenti in ritardo
Eppure a molti è andata proprio così. Secondo la Banca d’Italia i debiti della pubblica amministrazione hanno toccato l’apice proprio nel 2011 con 91 miliardi. Quell’anno, quando l’azienda di Corrado C. non ha versato l’Iva, quasi 4 mila imprese (più del doppio rispetto al 2008) sono fallite a causa dei debiti dello Stato. Ad agosto 2015, ultimo aggiornamento pubblicato dal ministero dell’Economia, le pendenze arretrate erano scese a 38,6 miliardi, ma sono destinate a crescere nuovamente perché nessun ente sta rispettando i termini di pagamento imposti a 60 giorni. La media, ammette il governo stesso, è 100.