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 2016  gennaio 04 Lunedì calendario

Renoir raccontato dal figlio

Il libro che Jean Renoir, il famoso regista della Grande illusione, ha dedicato al padre, Pierre-Auguste Renoir, che dipinse migliaia di fiori, di bambini e di donne, è un capolavoro di affetto, di delicatezza e di intelligenza (Renoir, mio padre, traduzione di Roberto Ortolani, Adelphi). Di rado abbiamo visto una persona con tanta intensità e immediatezza. 
Eccolo lì, Pierre-Auguste Renoir, seduto sulla sua poltrona a rotelle: o mentre cammina per le strade di Parigi e del Midi. Sorride con un meraviglioso sorriso, che illumina le cose, le persone e noi che leggiamo. Guarda il mondo con ironia e tenerezza. Canticchia. Si arriccia con un gesto nervoso la barbetta castano chiaro. Respira a pieni polmoni. Indossa una blusa bianca da operaio-pittore. Porta con sé la scatola dei colori, i pennelli, il cavalletto e la tela: ha sempre fretta; ma a un tratto si ferma di colpo, perduto nella contemplazione di una vite vergine o di una ragazza, che vorrebbe far rinascere sulla tela. Si chiude in casa, dipingendo per tutto il giorno e saltando i pasti: smette la sera, perché non si fida della luce artificiale. 
Quando incontra qualcuno, Renoir gli guarda in primo luogo le mani, che sono, per lui, l’arto fondamentale, senza il quale l’uomo non può vivere. Se non esistesse la pittura, a che pro abitare la terra? «Quel che accade nel mio cranio – dice – non mi interessa. Io voglio fare due cose: vedere; e toccare con le mani tutti gli oggetti del mondo creato e prendere il pennello». Non gli interessa udire: il cielo gli ha dato il dono di una sordità provvidenziale: molti la prendono per distrazione; mentre è, invece, una scelta involontaria, che egli ha operato in sé stesso. 
Jean Renoir, il figlio, risale indietro nel tempo, quando il padre era un ragazzo. Allora, la carta era rara. Il padre disegnava sul pavimento con i gessetti. Amava ritrarre la gente: prendeva a modello i genitori, i fratelli e la sorella, i vicini, i cani e i gatti, come avrebbe fatto per tutta la vita. Dipingeva solo ciò che gli piaceva: era una macchina straordinaria per assorbire il mondo. Cominciò a decorare porcellane con quell’entusiasmo raggiante che metteva in tutte le cose. Imparò a modellare e a tornire i vasi. Dipinse centinaia di volte Maria Antonietta, tanto che avrebbe potuto farne il ritratto a memoria. 
In seguito Renoir passò alle grandi dimensioni. Ridipinse un intero caffè ai Mercati Generali, dove costruì un’impalcatura, e rappresentò Venere che sorge dalle acque, senza risparmiare il verde Veronese né il blu cobalto. Creava il mondo: ma era persuaso che fosse il mondo a creare lui; e pensava che, nell’universo, c’è più unità che all’interno di un uovo. Consigliava agli amici di non esporsi mai al sole senza cappello: temeva la potente azione della luce sul cervelletto. Se esponeva quella zona delicatissima ai raggi ultravioletti, rischiava di perdere la facoltà di distinguere un grigio da un altro grigio, un suono da un altro suono. «Se voglio diventare Rubens, diceva, è meglio che mi metta il cappello». 
Non visse mai di ricordi. Era sempre occupato ad afferrare il presente, a guardarlo con occhi avidissimi, e a dargli un valore immortale. Amava il destino: il destino, quale fosse, che Dio gli aveva regalato; e lo scrutava con uno stupore sincero, una sorpresa che non cercava di nascondere mai. Per lui, questo destino era rappresentato soprattutto dalle donne: soltanto le voci femminili lo riposavano e gli davano una completa soddisfazione; nulla gli piaceva come la pelle rosata di una ragazza, o una pelle di latte cosparsa di lentiggini. Un’amica disse: «Renoir non è fatto per il matrimonio. Lui sposa tutte le donne che dipinge: le sposa con il suo pennello». L’aldilà non lo interessava. «Dopo, vedremo», diceva. «Quando sarò morto, forse avrò la possibilità di godermi la morte. Intanto, in qualità di vivo, mi accontento di godermi la vita». 
Quando dipingeva, detestava cambiare soggetto. Diceva: «I pittori medioevali erano fortunati. Sapere che per tutta la vita si rappresentano gli stessi soggetti: la Vergine col bambino, gli Apostoli, i quattro evangelisti... E non mi stupirei se qualcuno di loro si fosse limitato a un solo motivo, sempre lo stesso. Quale libertà! Non doversi più preoccupare di una storia, visto che la si è raccontata centinaia di volte». Così, lui dipingeva fiori, chiamandoli semplicemente «fiori», senza raccontare le vicende di ognuno di loro. Gli piaceva Bach perché componeva della musica pura, come i suoi quadri. Poteva dipingere centinaia di volte la stessa ragazza, lo stesso grappolo d’uva: ma ogni nuovo tentativo era una rivelazione, che in primo luogo stupiva lui stesso. 
Il segno del suo pennello era tondo, come se seguisse il contorno di un giovane seno. «In natura, diceva, la linea retta non esiste». L’arte si riassume in una sola parola: irregolarità. La terra non è rotonda. L’arancia non è rotonda. Nessuno dei suoi spicchi ha la stessa forma e lo stesso peso. Aprite quegli spicchi, e vedrete che non hanno la stessa quantità di semi, e quei semi non si assomigliano. Prendete centinaia di foglie da un albero: sono tutte diverse. Per questo andava così volentieri nella foresta di Fontainebleau: ammirava i tronchi diritti delle grandi querce e la luce azzurra che filtrava attraverso il fogliame che le ricopriva come una volta. Sembrava di stare sul fondo del mare, in mezzo ad alberi di navi naufragate. Scopriva il movimento di un remo, il colore di una foglia: dipingeva con una passione unica, così preso dal suo soggetto che non vedeva né sentiva quel che gli accadeva intorno. 
Diceva di Maupassant: «Vede tutto nero!», mentre Maupassant diceva di lui: «Renoir vede tutto rosa!». Andavano d’accordo solo su un punto: «Renoir è pazzo», diceva Maupassant. «Maupassant è pazzo!», diceva Renoir. Ma Renoir pensava di rado ai libri e agli scrittori. Tornava a dipingere, al massimo con una decina di colori, disposti in mucchietti regolari su una tavolozza ben tenuta: da quei poveri mezzi uscivano sete cangianti e carni luminose. Talvolta la lentezza della sua percezione lo irritava. All’inizio vedeva il soggetto come una nebbia. Sapeva che conteneva quello che si sarebbe rivelato solo col tempo. Spesso, i motivi più importanti si rivelavano per ultimi: in quel punto dove aveva lasciato cadere, all’inizio, un tocco incomprensibile. «Non è mai passato un giorno, diceva, senza che dipingessi, o almeno disegnassi. Bisogna tenere la mano sempre in esercizio».
La parte più bella del bellissimo libro di Jean Renoir è dedicata agli ultimi anni di vita del padre: quelli che egli conobbe meglio e seguì da vicino. Ormai il padre aveva trovato a casa la piena tranquillità d’animo e il proprio luogo. Senza averne l’aria, ascoltava le conversazioni che si svolgevano in cucina. Dipingeva soprattutto ritratti di famiglia: la moglie, i figli, i parenti; Jean trovò i propri rossi capelli infantili rappresentati centinaia di volte. 
Un giorno, mentre andava in bicicletta, Pierre-Auguste Renoir scivolò in una pozzanghera, cadde su un mucchio di sassi, e si spezzò il braccio destro. Qualche mese più tardi, ebbe un terribile attacco reumatico: non poteva più muovere il braccio destro; il dolore era tale che dovette rimanere diversi giorni senza toccare i pennelli. La sua vita diventò una lotta incessante contro la malattia. Non voleva guarire: gli era indifferente. Voleva continuare a dipingere. 
Verso il 1902, l’atrofia parziale di un nervo dell’occhio sinistro si accentuò. Il reumatismo aumentò questa paralisi: in poco tempo, Renoir assunse quell’espressione di fissità, che impressionava coloro che lo avvicinavano per la prima volta. Di mese in mese, il viso diventò più emaciato: le mani si rattrappivano e si deformavano: le dita abbrancavano il pennello più che tenerlo: il passo si faceva via via più pesante; doveva aiutarsi con due bastoni per percorrere le poche centinaia di metri tra la casa e lo studio. Infine rinunciò a camminare. Le notti erano atroci. Era così magro che il minimo sfregamento delle lenzuola sulla pelle gli procurava piaghe. Ma la minaccia del corpo andava di pari passo con il furore quasi incredibile della sua arte. Dalla tavolozza austera uscivano i colori più straordinari, i contrasti più audaci. Quando la carezza del suo pennello scivolava sulla tela, generava raggi. Dipinse il grande quadro delle Bagnanti. 
L’ultimo giorno della sua vita, Renoir chiese il pennello e i colori, e dipinse alcuni anemoni, che la domestica aveva raccolto per lui nel giardino. Per alcune ore, dimenticò il male. Poi fece segno di riprendere il pennello e disse: «Credo di cominciare a capirci qualcosa». Quando il figlio tornò a casa, lo trovò disteso sul letto. Respirava a fatica. Il dottore disse che era giunta la fine. La rottura di un vaso sanguigno trasformò il suo rantolo in una specie di delirio. Morì nella notte.