La Stampa, 4 gennaio 2016
Conosciamo l’ingegnere che comanda l’algoritmo di Facebook
Tom Alison ha appena pubblicato una nuova foto profilo. Sua figlia spunta da dietro e lo abbraccia. La pubblica su Facebook e gli amici commentano, come un miliardo di utenti ogni giorno, come tutti noi. Ma Tom Alison è anche il signore che scrive le regole per cui noi tutti vedremo – o non vedremo mai – quella foto o l’ultima ora del New York Times.
È il capo degli ingegneri del newsfeed di Facebook: una squadra di oltre cento persone addette agli algoritmi che danno vita, ogni istante, al flusso di informazione che ci appare davanti agli occhi, alla rappresentazione della nostra realtà. «L’obiettivo è che ogni utente possa incontrare il contenuto che davvero gli interessa», dice Alison, in una sala profumata di legno del nuovo quartier generale di Facebook a Menlo Park. «Possono essere le storie dei suoi amici o della famiglia – aggiunge -: è la base del funzionamento del newsfeed. Il nostro prodotto funziona quando le persone sono connesse a ciò che interessa loro su Facebook».
Come funziona
È difficile dire se usiamo Facebook per i contenuti che ci offre o perché gran parte della nostra rete sociale è su Facebook. Ma il newsfeed resta una delle idee chiave alla base del social network: garantire all’utente di osservare il flusso di informazione che riguarda la propria cerchia di amici. Come funziona? «Il newsfeed è il risultato dei post delle persone e pagine a cui sei connesso. Ogni newsfeed è unico e personalizzato – dice Alison -. Se anche io e te abbiamo esattamente gli stessi amici e seguiamo le stesse pagine, comunque non vedremmo le storie nello stesso ordine. Dipende dall’interazione che si ha con quelle pagine e quegli amici. Se spendi molto tempo sui contenuti di un certo amico è probabile che le sue storie finiscano spesso nel tuo newsfeed».
Il punto è capire cosa c’è dietro quello che vediamo, come fanno cento ingegneri a scrivere regole che permettono a un miliardo di persone di conoscere – o almeno pensare di conoscere – il loro mondo. In generale funziona così: ogni volta che un utente visita la pagina di un altro o commenta, clicca e guarda un contenuto, sul suo profilo viene aggiunto un punto, un numero nella storia della relazione con quell’utente. Raccogliere i punti e fare un calcolo è la parte più semplice. Il lavoro degli ingegneri inizia soprattutto quando i punti vanno pesati, interpretati, anche per evitare che il sistema finisca in un loop. Parliamo di anni di interazioni, di clic, like, di foto viste e riviste. Per Facebook questi sono segnali, appuntati automaticamente. La magia deve avvenire quando apriamo il nostro newsfeed, digitando facebook.com sul computer o aprendo l’app. In quel momento parte quella che i tecnici definiscono una «chiamata»: in un secondo il sistema chiede, conoscendo la nostra storia, quale post dovrà apparire per primo. Spiega Alison: «Ognuno dei post possibili ha un punteggio dato dai criteri che abbiamo citato: quanti like, quanti commenti e condivisioni. Quando apri Facebook quello è il risultato in tempo reale».
Cosa è cambiato
Anche Facebook è cambiato: la generazione dei primi utenti ricorderà i post che annunciavano: «Giulia è ora connessa con Andrea». Sono contenuti più rari per noi utenti maturi e occidentali, con centinaia di amici ma pochi nuovi amici. Ma non c’è uno standard, perché il newsfeed è personalizzato. Ciò che vedrà un utente indiano, appena iscritto, è possibilmente simile alla nostra prima fase di Facebook. La ricerca di un newsfeed perfetto continua giorno per giorno. A Menlo Park gli ingegneri di Facebook si incontrano ogni martedì per studiare i feedback arrivati dagli utenti e riscrivere l’algoritmo dei punteggi. Facebook paga anche centinaia di utenti per votare la qualità del proprio newsfeed. La novità è che da qualche mese il social network ha deciso di incoraggiare una personalizzazione attiva e non solo passiva: non più legata alle azioni, ma anche all’impostazione consapevole di alcune preferenze. Per esempio è possibile scegliere di vedere meno post di un certo amico invadente. Il primo test è stato fatto in Italia a luglio. «Se una tua amica scrive su Facebook che è incinta, vogliamo essere sicuri che tu veda subito quel post», continua Alison. Mentre parla, nei suoi occhi sembra scorrere il ripetersi di milioni di annunci del genere. L’ingegnere ascolta il respiro degli utenti, intuisce le dinamiche sociali, premia le relazioni.
La «filter bubble»
Ma come funziona il punteggio se non parliamo di bebè e invece di politica, di una notizia vera o falsa, di un’informazione che può orientare il nostro punto di vista? Il discorso si fa complesso e da anni i ricercatori parlano del rischio di una «Filter Bubble», una bolla in cui i contenuti che vediamo siano simili a noi stessi, e quindi non sorprendenti, forse rassicuranti, per esempio coerenti con una fede politica già affermata. Insomma, a Facebook va bene di essere un attore che non favorisce il cambiamento, che non provoca il momento in cui il singolo cambia idea? L’ingegnere risponde come deve: cita i numeri. Nel 2015 Facebook ha pubblicato uno studio su oltre 10 milioni di utenti americani che smonta, in parte, l’idea della bolla, dicendo che nei fatti la polarizzazione deriva più dalle scelte delle persone che dal suo algoritmo. «Nei fatti le persone non sono in una bolla su Facebook – dice Alison – Se sei interessato alla politica vogliamo che tu possa seguire un giornale o un partito. Non vogliamo mostrarti cosa non ti interessa. Ma nei commenti ognuno mostra il suo punto di vista».
I Paesi emergenti
Conoscere le relazioni tra gli utenti e tra gli utenti e i brand è ovviamente parte fondante del modello di business di Facebook, che rende il social network il secondo attore della pubblicità digitale personalizzata dopo Google. Nel terzo trimestre del 2015 Facebook ha registrato oltre un miliardo di utenti attivi ogni giorno e ricavi pubblicitari per 4,29 miliardi di dollari. Proprio dai numeri si intuisce il futuro di Facebook: la base utenti è oggi realmente globale: solo 400 milioni di utenti sono tra Usa, Canada e Ue. La maggior parte è già del «resto del mondo». Sul fronte dei ricavi il discorso è diverso: 3,16 dei 4,29 miliardi di dollari della pubblicità arriva da Nord America e Europa. La rincorsa al prossimo miliardo di utenti connessi è in India, in Africa, e non è un caso che Mark Zuckerberg punti sui Paesi emergenti con il suo progetto Internet.org che promette di connettere anche i più poveri. Gli obiettivi di Internet.org sono per forza discussi: negli scorsi giorni l’India ha deciso di sospendere il servizio per il timore che si crei una linea preferenziale per Facebook, violando il principio della neutralità della rete. Anche l’Egitto ha sospeso il servizio, che continua con un certo successo in oltre 35 Paesi. Zuckeberg si è di nuovo espresso in prima persona con un editoriale sul Times of India, ma nonostante gli obiettivi globali è attento alla prima, fondamentale creatura: il newsfeed. Qualche mese fa, in un’improvvisata chat con gli utenti, ha annunciato l’arrivo di un tasto «non mi piace» oltre il tradizionale «like». Quel giorno Alison e i suoi ingegneri non sapevano nulla, anche se la modifica potrà avere conseguenze dirette sul magma di numeri e regole del newsfeed. Così, quando l’intervista è finita e nei quattro ettari di campus con parco, il lavorio continua, silenzioso, l’addetta stampa interviene saggia: «Mark dice quel che vuol dire, e questa è una delle cose migliori di Mark».