la Repubblica, 4 gennaio 2016
Il fattore Bill, che può far vincere (o perdere) Hillary
Richiamato dalla moglie sulla terra fredda della politica dal cielo dei grandi rimpianti e dei brutti ricordi dove volava da 15 anni, torna sul sentiero elettorale, circonfuso nell’aureola dei capelli candidi, Bill Clinton, “Bubba” come lo chiama la moglie che per andare alla Casa Bianca da presidente ha bisogno di lui. Tutti lo aspettavano e tutti ne hanno paura, Hillary inclusa, perché il “Fattore B” è il jolly che potrà sparigliare la partita, con il suo fascino ancora intatto a 68 anni, il suo bagaglio personale e politico, la sua capacità ineguagliata di seduttore di folle e di gaffeur. Oggi, nel sottozero tagliente del New Hampshire, dove il 9 febbraio – otto giorni dopo i “caucus”, i meeting di cittadini nello Iowa che apriranno la corsa delle primarie il primo febbraio per i democratici e i repubblicani – si terranno le prime vere elezioni fra candidati, “Bubba” terrà il suo comizio politico per sostenere la candidatura di Hillary, così formalizzando il ritorno sulla scena di quella coppia irresistibile che domina il Partito democratico dal 1992. E lo farà proprio da quel gelido staterello dell’estremo Nord da un milione e mezzo di abitanti dove, in un altro febbraio elettorale, William Jefferson Clinton riuscì ad arrivare secondo dopo essere stato umiliato in Iowa e proclamò se stesso “The Comeback Kid”, il ragazzo della resurrezione. Erano molto giovani, allora, lui e la moglie che lo seguiva fedele, capace di una lealtà che più tardi sarebbe apparsa a molte donne eroica e ai cinici interessata, ma anche di scandalizzare l’America tradizionalista quando disse che non sarebbe mai stata una First Lady «da tè delle signore coi pasticcini». Avevano poco più di quarant’anni, erano la nuova generazione dei nuovi democratici, sciolti dal culto dogmatico del rooseveltismo e dello statalismo, adorati tanto dalla Hollywood progressista come dalla Wall Street affarista. Due intellettuali, avvocati cresciuti nei giardini delle grandi università americane e delle ragazze per bene, Georgetown, Wellesley College, Yale, dove si conobbero. Ma anche capaci di condurre una campagna al suono ossessivo del pop Anni ‘70 dei Fleetwood Mac che invitavano a “don’t stop thinking about tomorrow”, non smettere di pensare al domani. Fu allora che un’America che non lo conosceva scoprì il fascino del bel ragazzo del Sud più profondo, figlio ufficialmente di un commesso viaggiatore alcolista finito in auto contro un palo della luce e di un’infermiera molto chiacchierata, che lo allevò in una misera casetta dell’Arkansas, Stato celebre soprattutto per gli allevamenti industriali di polli, in un paesetto chiamato Hope, Speranza, che sembrava inventato per dare a Bill uno slogan: ecco l’uomo venuto dalla speranza. Ma se il viaggio dei due, divenuti una inarrestabile ditta politica, la “Billary & Co”, fu sorprendente, ancora più lo è la beatificazione di lui dopo l’umiliazione pubblica e – passato indenne attraverso scandali veri e immaginari, la ricerca minuziosa in ogni suo cedimento alla Monica birichina col baschetto e la bocca di rosa – un processo di impeachment finito per una striminzita assoluzione in Senato. Che cosa resti di quell’immenso capitale di popolarità divenuta venerazione dentro il Partito democratico è la scommessa che oggi Hillary fa, puntando su un marito tanto popolare quanto ingombrante. Bill genera finanziamenti, vere esondazioni di offerte, che hanno raggiunto i 112 milioni di dollari nel 2015, e 37 soltanto da settembre a oggi. Stringe in pugno tutte le leve del partito, a cominciare da Obama che non sarebbe diventato presidente senza di lui, come fu chiaro nel patto non tanto segreto del 2008, quando Bill promise di fare campagna per lui se si fosse impegnato per la moglie Hillary a fine mandato. E scalda i cuori degli elettori, ancor più delle elettrici, sulle quali la sua ben documentata fama di “Lady killer” produce brividi surrogati. Bill sta a Hillary come Ginger Rogers stava a Fred Astaire, come il partner che sul palcoscenico e negli studios porta quell’umanità, quell’implicita sessualità che la freddezza algida e meccanica dell’altro non possiede. Ma esige un prezzo. Non soltanto Clinton, lui, si trascina il ricordo di uno scandalo che paralizzò l’America per un anno intero, il 1998, e che ora l’avversario sempre più evidente della moglie, Donald Trump, ha puntualmente risollevato accusando preventivamente di essere «uno che abusava delle ragazze», «un molestatore che sarebbe stato licenziato da un’azienda per come si comportava con le dipendenti». Più sottile, e più rischiosa per Hillary è la contraddizione fra la narrativa della donna che finalmente può arrivare alla presidenza dopo due secoli abbondanti di monopolio maschile e l’ingombro di quel marito sotto la cui tutela ora si rifugerà per sopravvivere alla maratona elettorale. Il “Fattore B” è dunque insieme un “asset”, un attivo per il capitale politico di lei, ma anche una “liability”, una passività, nel dubbio che la vittoria della signora possa rivelarsi la terza presidenza informale del signor Clinton. In attesa di sapere che cosa potrà fare l’ingombrante “Nuvola Bianca” tornato in quella Casa che fu sua, da padrone, per otto anni, e come potrebbe collocarsi, in presenza della legge che vieta, a parenti e affini, ogni incarico governativo ufficiale. Dunque Hillary non può vincere senza di lui, ma potrebbe non vincere a causa di lui. Quanto tempo può mancare alla prima intervista a Monica Lewinsky?